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20 settembre-9 ottobre 2013
in LAOS

incastonato tra vicini ingombranti che ne hanno influenzato il destino dall'alba dei tempi o quasi, interferendo spesso in modo più che tangibile con le vicende politiche ed economiche del paese, il laos è per certi versi culturalmente affine alla thailandia e per molti altri, in primis la sua storia, la grande varietà etnica e l'indelebile impronta tribale, del tutto diverso e davvero unico.

è una terra affascinante, che ha aperto le porte al visitatore straniero da appena 20 anni e quindi conserva incorrotti alcuni angoli di meraviglia, ancora ammantati dell'impagabile fascino dell'inviolato, e regala a tratti quel senso di scoperta oramai così raro da provare nel sudest asiatico. di recente, a dire il vero, lo sviluppo delle infrastrutture e la pubblicizzazione sempre più spinta, presso il pubblico occidentale, soprattutto francese, del laos quale meta esotica e abbordabile ha però dato luogo a un tipo di turismo che ad essere onesti non ci entusiasma affatto (e lo stesso vale anche per i paesi confinanti): che si tratti di giovani backpackers in cerca di sballo e con poco rispetto per la cultura locale (quelli che se ne vanno per le strade a torso nudo con la birra in mano, manco fossero a casa loro, e poi la mattina presenziano molesti alla cerimonia del tak bat di luang prabang -la raccolta mattutina delle offerte di cibo donate ai monaci dai fedeli buddhisti-, piazzandosi con tanto di invasivissimi teleobiettivi a mezzo metro dai monaci e dai fedeli, senza il minimo riguardo), o dei grupponi dei tour organizzati, meno sfacciati e un po' più coscienziosi, il risultato è sempre lo stesso. pochissimi si muovono coi mezzi pubblici, preferendo appoggiarsi alle agenzie per prenotare esclusivi VIP bus privati (e poi si chiedono come mai non viaggiano mai coi laotiani!), pochissimi mangiano nei mercati o nelle bancarelle lungo la strada, optando per costosi e sterili pasti a base di bistecca, patatine e coca cola nei ristoranti per falang. scelte quantomeno opinabili, considerando che siamo in uno dei paesi più poveri dell'asia. quelli che, come cerchiamo di fare noi, ancora girano senza mai prendere un taxi o un tuk tuk, vivono di street food e si spostano rigorosamente coi mezzi pubblici sono una specie in via d'estinzione, almeno in questa parte del mondo. punto e chiusa la digressione che non voleva essere intenzionalmente polemica ma se n'è uscita così. lorsignori vogliano scusarci.


il laos è un insieme stratificato e complesso di gruppi etnici e linguistici, di popoli tribali, di tradizioni antiche ma ancora vivaci, un'istantanea memorabile di uno stile di vita che altrove non è più, primordiale e infinitamente più naturale e consapevole, una collezione di tipi umani di una bellezza rara e struggente che muovono sullo sfondo più o meno incontaminato di una natura selvaggia e rigogliosa (nonostante i progetti per lo sviluppo energetico, l'industria metallurgica, le miniere etc che incalzano anche da queste parti, oppure il terrificante cementificio stile isengard-dei-tempi-bui, che scorgiamo illuminato a giorno nella notte laotiana transitando in bus per vang vieng).

la fondazione del laos come oggi lo conosciamo, o quasi, viene fatta comunemente risalire all'epoca di lan xang, il regno di un milione di elefanti, che nel 1354 unificò per la prima volta le genti lao in un organismo statale unitario, il quale plasmò per tre secoli la sua fortuna attraverso alterne alleanze e scontri coi regni khmer, thai e vietnamiti. alla fine del XVII secolo lan xang venne smembrato in tre regni minori, quelli di vientiane al centro, di luang prabang a nord e di champasak a sud, annessi al siam appena un centinaio d'anni più tardi, solo per venirne strappati sul finire dell'800 ad opera della corona di francia e di nuovo unificati sotto l'egida dell'empire colonial français. il protettorato francese del laos con capitale vientiane rimase uno stato cuscinetto di scarsa rilevanza all'interno degli equilibri dell'indocina francese fino a quando nel 1940, in seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale, l'impero del sol levante si impossessò dei domini coloniali di parigi. nello stesso anno ebbe luogo il contrattacco siamese che recuperò parte dei possedimenti sottratti dalla francia e lasciò il solo regno di luang prabang a governare la restante porzione di territorio laotiano. nel '44 le truppe francesi si riorganizzarono per rispondere ai giapponesi, ma ne vennero sbaragliate e dovettero così assistere alla proclamazione da parte del re del laos, sotto notevole pressione nipponica, dell'indipendenza dalla dominazione francese e del riconoscimento della protezione di tokyo. quindi, in seguito alla sconfitta giapponese del '45, venne proclamata la repubblica da parte del pathet lao -il movimento comunista laotiano-, esperienza durata soltanto pochi mesi e conclusasi quando i francesi, che non intendevano affatto mollare la presa in indocina, ripresero il controllo della loro ex colonia, restaurando la monarchia laotiana nel '47. nel frattempo in vietnam le fazioni antifrancesi e antimonarchiche della regione si confederavano nel partito comunista dell'indocina, dal quale in seguito si staccarono le varie sezioni nazionali, allo scopo di porre fine in via definitiva alla tirannia imperialista straniera e di fare al contempo capitolare anche l'amministrazione monarchica. nei primi anni '50 il pathet lao col sostegno vietnamita da una parte e il regno laotiano con lo sponsor francese dall'altra, a sua volta occultamente sovvenzionato dagli usa, creavano ciascuno un proprio esercito. nel '53 le truppe vietnamite del generale giap e i guerriglieri del pathet lao invasero il laos nordorientale, dando inizio alla guerra civile. la lotta per l'indipendenza dell'indocina era cominciata e si sarebbe trascinata fino alla risolutiva battaglia di dien bien phu nel 1954, combattuta presso il confine lao-vietnamita, che sancì l'inappellabile sconfitta dell'imperialismo francese segnando però di fatto l'avvio, o meglio l'intensificazione, dell'ingerenza americana nel sudest asiatico.


la guerra civile laotiana, che contrappose le forze comuniste finanziate dall'unione sovietica e le truppe della monarchia sostenute dagli usa, si protrasse infatti dal 1953 fino al '75, grazie al malcelato e continuativo intervento degli stati uniti in quella che fu definita una vera e propria guerra segreta, condotta da washington nella piena violazione di ogni convenzione internazionale, che si concretizzò nel sovvenzionamento per parte americana dell'80% delle spese militari dell'esercito reale e nell'addestramento di 30000 civili di etnia hmong alla guerriglia anticomunista.
la costruzione da parte lao-vietnamita della rete stradale, più nota col nome di "sentiero di ho chi minh", con cui i nord-vietnamiti rifornivano la guerriglia nel sud del paese, passando attraverso laos e cambogia, significò l'instaurazione di un legame fondamentale tra i due fronti del conflitto. fu proprio per ostacolare tale connessione che l'esercito americano avviò a partire dal 1964 una campagna di bombardamenti a danno del laos, tra le più massicce e criminali che memoria d'uomo ricordi, costringendo nello stesso anno più di 20000 guerriglieri laotiani ad asserragliarsi nei 486 cunicoli naturali delle grotte di vieng xay.

il laos è il paese più bombardato della storia. l'esercito americano sganciò complessivamente più di due milioni di tonnellate di bombe, circa 84 tonnellate per abitante, ovvero la bellezza di 270 milioni di ordigni in totale, di cui 80 milioni giacciono ancora inesplosi in terra laotiana. sul popolo del laos in quel decennio nero è piovuto l'equivalente di una bomba ogni 8 minuti, e questo per 9 lunghissimi anni. circa 30000 persone (98% dei quali civili) furono brutalmente uccise e centinaia di villaggi cancellati in un istante. come se ciò non bastasse, pur se la guerra segreta americana si è conclusa più di 40 anni fa, le milioni di bombe presenti su tutto il territorio nazionale non cessano di massacrare civili innocenti: 20000 laotiani sono morti dal '74 in poi e al giorno d'oggi la media è quella di due decessi la settimana, di cui il 40% sono bambini.

dal 1973-74, con l'escalation del conflitto in vietnam, i raid americani persero prima di intensità e quindi cessarono del tutto, costringendo l'esercito reale lasciato a se stesso ad arrendersi infine alle forze del pathet lao nel 1975, anno in cui fu proclamata la repubblica democratica popolare del laos. alla vittoria del fronte comunista seguì la violenta persecuzione dei traditori hmong che avevano collaborato con le truppe americane e la loro conseguente migrazione di massa verso la vicina thailandia o gli stati uniti.
oggi il laos è tra i paesi più poveri dell'intero pianeta e se ne langue tuttora sottoposto, più o meno palesemente, all'ingerenza politica vietnamita e alla dipendenza economica dalla thailandia.

ma c'è di più. oltre al dichiarato intento di contrastare l'avanzata del mostro comunista, l'obiettivo fondamentale del coinvolgimento statunitense (e francese prima) nel conflitto che ha insanguinato e distrutto l'intero sud-est asiatico è sempre stato il controllo della produzione e del traffico di oppio nel triangolo d'oro (come del resto è poi accaduto in afganisthan). dapprima fu l’intelligence militare francese a finanziare le sue operazioni belliche col commercio di oppio e eroina, che servì a sostenere la guerra coloniale dal 1946 sino al 1954: la raccolta dell'oppio grezzo avveniva nelle aree tribali, da cui poi veniva trasportato per mezzo di velivoli militari fino a saigon, dove la mafia sino-vietnamita si occupava di spedirlo in francia perchè fosse raffinato in eroina e quindi spacciato in europa e negli stati uniti. in seguito alla cacciata dei francesi dall'indocina, la CIA rilevò la redditizia attività del narcotraffico di cui sopra e, sulla base di ciò, orientò la strategia delle forze statunitensi in vietnam, affinché il conflitto si protraesse, nonostante l'evidente disparità di mezzi e uomini dispiegati e fatta salva la grande determinazione e la notevole abilità militare vietnamita, tutto il tempo necessario al governo e ai servizi segreti usa per ottenere il controllo sul mercato dell'oppio nella regione. i dati circa l'assuefazione da eroina, dilagante prima tra le truppe yankee in vietnam e più tardi tra la popolazione nordamericana e dell'europa occidentale, a partire dal conflitto vietnamita sono già di per se stessi sufficientemente eloquenti. un prezzo altissimo fu pagato in termini di vite umane in laos e vietnam. la gestione dell'affare oppio si avvaleva della collaborazione del comando militare sudvietnamita, che allestì una rete di traffico molto ampia attraverso le sue forze speciali operanti in laos.
il regno laotiano, filoamericano, divenne in questo periodo, e sotto il diretto controllo della CIA, uno dei principali produttori di oppio, il quale veniva poi trasportato a bordo dei mezzi dell'“air america”, quando non addirittura con le salme rimpatriate dei caduti americani in guerra.



una storia quella del laos che dire tormentata è dire niente e che è direttamente connessa con le difficili condizioni di vita in cui versa ancora oggi buona parte della popolazione. fuori dalle piccole città principali il laos è un trionfo di villaggi rurali stile nepal, con capanne di legno, paglia o bambù inghiottite dalla giungla, dove bimbi seminudi e impolverati scorrazzano liberi e la vita scorre lontana anni luce dal buco nero global-capitalistico.

questa finestra aperta sull'asia-che-fu è il motivo principale per cui si viene in laos, anche alla luce del fatto che la stessa atmosfera di bucolica serenità è quasi scomparsa, o almeno è assai rara da ritrovare, nelle altre zone del sudest asiatico, mentre invece ad esempio è decisamente viva e vegeta nel subcontinente indiano.

a dirla tutta vientiane ha secondo noi poco da offrire, se non la possibilità di toccare con mano ciò che anche il laos è destinato a diventare in futuro, salvo cataclismi planetari. nella capitale infatti quelli che lavorano nel mondo del turismo si sono in breve tempo arricchiti a livelli davvero considerevoli per gli standard laotiani (e i prezzi stratosferici dei servizi turistici rispetto al costo della vita reale la dicono lunga in proposito), accentuando il già notevole divario tra città e villaggi, tra ceti sociali, tra etnie della piana del mekong e lao delle colline e delle montagne. in compenso però altrove il laos regala scorci interessanti di vita tribale, come accade nei pittoreschi mercati tradizionali dove le genti delle tribù delle colline, in costume tipico, si radunano per vendere scoiattoli arrostiti, bisce d'acqua, pipistrelli essiccati, illegalissimi esemplari di loris lento da compagnia e poi il solito campionario di grilli, cavallette, larve e bacherozzi vari. una sorta di museo di etnografia vivente. la gente poi è dovunque amichevole e generosa.

non abbiamo a disposizione tutto il tempo del mondo, perciò non riusciamo ad andare ovunque vorremmo, anche perché siamo costretti a trattenerci quasi una settimana a vientiane per sbrigare le faccende relative al visto cinese e vietnamita. il nostro passaggio attraverso il laos, pur se meno estensivo di quanto ci sarebbe garbato, basta comunque a farci cogliere l'enorme differenza tra le destinazioni più gettonate e le perle rare disseminate lungo le rotte meno battute, dove le folle di vacanzieri scompaiono e il laos si trasforma in un luogo idilliaco che ci incanta almeno quanto vientiane ci lascia indifferenti.

insomma, nonostante alcuni aspetti che non siamo riusciti a digerire per bene, soprattutto per quanto concerne il tipo di turismo promosso dal governo “comunista”, questa rimane una terra indubbiamente seducente, che ci ha lasciato la voglia di tornare per immergerci di nuovo nel verde splendore delle risaie, nella maestosità della foresta, nell'atmosfera senza pari dei villaggi di collina, per goderci il laos che ci ha toccato il cuore.
ma quali trekking costosissimi con guida anglofona o a dorso di poveri elefanti ammaestrati?
ma quali tour in barca, magari stipati insieme a chissà quanti altri falang in tre metri quadrati?
ma quali visite organizzate ai villaggi delle etnie tribali, che somigliano purtroppo a tristi scampagnate domenicali allo zoo, dove in mostra, invece di animali ingabbiati, ci sono persone in carne ed ossa, stili di vita e inestimabili patrimoni culturali, schiaffati in vetrina perché l'uomo urbano e civilizzato soddisfi la sua curiosità morbosa e ignorante?
mah, a ognuno il suo. tutto questo certo non fa per noi. preferiamo di gran lunga girovagare a piedi per i fatti nostri, attraverso villaggi sonnolenti o alla scoperta dei coloratissimi mercati tradizionali, che forse non figurano nelle guide ma mostrano il volto più autentico del laos, quello che se ne sta appena al di là dei tour e dei pacchetti, in attesa di essere scoperto.


i fotogrammi preziosi e impagabili di questo paese splendido, cui ripensiamo con tenerezza, rispetto e nostalgia, ci accompagneranno a lungo, soprattutto mentre arranchiamo schifati nella giungla di cemento delle città, dove tutti vestono uniformemente all'ultima moda e vivono per l'iphone, le scarpe nuove, i jeans griffati, il macchinone e la sfolgorante carriera da schiavi di una multinazionale a caso.

il nostro itinerario in due parole: partiamo da VIENTIANE dove, a parte lo stupa dorato, qualche wat interessante, alcuni musei ed edifici coloniali, c'è poco altro a trattenerci e quindi ci spostiamo a sud verso SAVANNAKHET; anche qui non c'è granchè da fare, se non passeggiare in riva al mekong e chiacchierare col primo che passa, perciò, dopo il rapidissimo prelievo di passaporti e scartoffie annesse presso le ambasciate di cina e vietnam nella capitale, migriamo stavolta verso nord e di preciso a LUANG PRABANG; la meta più visitata del laos fu capitale del grande regno di lang xang e conserva un numero ragguardevole di magnifici wat patrimonio dell'unesco, intervallati da una sfilza più o meno infinita di guesthouse, ristoranti e simil-bistrot parigini, che non sono ancora riusciti a guastarne del tutto la piacevole atmosfera –anche se forse è solo questione di tempo -; per OUDOMXAY passiamo e basta, fermandoci una sola notte, e poi proseguiamo ancora in direzione nord verso MUANG SING, dove passeggiamo per la campagna circostante costellata di villaggi incantati; l'ultima tappa è LUANG NAM THA, coi suoi dintorni mozzafiato, per cui sarebbe potenzialmente possibile vagare all'infinito, zeppi come sono di scene da idillio campestre, gruppi tribali e dimore tradizionali sperdute tra le risaie, e poi il piccolo stuzzicante night market, dove cerchiamo ristoro dopo le escursioni quotidiane, magari in compagnia delle adorabili donnine akha o del beone laotiano di turno che prima, indicandoci, urla incazzoso al suo amico “falang.. america..” (e infondo chi può biasimarlo?) e poi, appena scopre che siamo italiani, non smette un secondo di ridere, mimare la testata di zidane a materazzi e offrirci generose sorsate di beer lao; infine ce ne partiamo alla volta del posto di confine di BOTEN-MOHAN e poi... di là è la cina.

settembre 2013
THAILANDIA³
l'isaan: passaggio a nord est

terra di confine dove i mondi lao e thai si incontrano e si fondono, affini ma pur sempre diversi, la vasta regione del nordest thailandese è composta da ben 19 province e popolata da oltre 20 milioni di persone.


delimitata a nord e ad est dal corso del mekong, oltre il quale si estende il laos, e a sudest dal confine cambogiano, è una zona interessante dal punto di vista etno-antropologico per la composizione demografica che la distingue dal resto della thailandia, con la maggioranza lao parlante la lingua isan, un dialetto laotiano, cui si affiancano minoranze khmer e vietnamite. anche se l'annessione al regno siamese è datata fine '700, la regione dell'isaan è riuscita nel tempo a mantenere la sua peculiarità quando non una costante distanza dal siam propriamente detto. le ristrettezze economiche e il suo carattere troppo poco thai hanno portato il governo di bangkok a percepire il nordest come una potenziale fucina di guerriglieri e ribelli comunisti, orizzonte più che mai nefasto per la corona siamese. e così, al fine di scongiurare tale inammissibile deriva socialista entro i propri confini, a partire dagli anni sessanta re e parlamento hanno caldeggiato l'instaurazione di numerose basi militari americane nelle varie korat, nakhon phanom, udon thani, nakhon sawan e ubon ratchathani, a sostegno della campagna di “liberazione” - leggasi distruzione- del vietnam. se da una parte la propaganda filo-occidentale continua a voler vedere nella presenza dell'usarmy il motore dello sviluppo di questo pezzo dimenticato di sud-est asiatico, che grazie alla presenza yankee si sarebbe per la prima volta avvicinato al modello americano e alla sua infallibile ricetta per la felicità, molti sono consapevoli che proprio ai soldati americani, che qui cercavano ristoro dopo le mortifere trasvolate per i cieli laotiani e vietnamiti, si deve l'incremento stratosferico del fenomeno della prostituzione in thailandia, una piaga che avvelena tuttora la società e che prolifererà indisturbata fintanto che continuerà a riempire di baht-dollari le tasche giuste.
la tristezza abominevole della situazione si commenta da sola.


pur se negli ultimi secoli gli effetti della graduale ma costante influenza thai si sono fatti alquanto visibili, l'isaan conserva ancora la sua specificità linguistica, culinaria e culturale che ne fa una meta originale e piacevole da esplorare. 

l'agricoltura, e di preciso la coltivazione dell'onnipresente riso glutinoso (sticky rice), è tuttora il settore trainante dell'economia regionale, pur se le cose stanno cambiando anche in quella che è storicamente tra le aree più povere del paese. l'amministrazione centrale ha di recente investito nella modernizzazione delle infrastrutture per attenuare il divario col resto della thailandia e oggi le città appaiono più o meno le stesse che altrove, fiorenti e pure industrializzate per gli standard del sudest asiatico. fuori però è un'altra storia: l'isaan rurale è una delle ultime casseforti della tradizione contadina delle origini nella thailandia moderna, custode di desueti quadretti pastorali, di scene d'altri tempi, di ritratti di clan familiari allargati, cui i giovani emigrati nella frenetica modernità di bangkok fanno ritorno per una visita alla madre nel sonnolento villaggio della loro infanzia, sperduto nel bel mezzo del tappeto di risaie dell'altopiano di korat.


l'atmosfera qui è lontana anni luce da quella delle destinazioni dei pacchetti vacanza. il ritmo dell'isaan è il passo lento e naturale della thailandia che piace a noi. questo è uno degli angoli del paese, sempre più rari purtroppo, dove la vita scorre secondo logiche che non sono sottoposte al materialismo sfacciato del tourism business, dove la gente non è avvezza a incappare in un falang per strada, i bambini ti fissano curiosi e amichevolissimi “hello” ti piovono addosso a destra e a manca. 
in effetti in giro di turisti se ne incontrano davvero pochi, i locals sono oltremodo splendidi, i prezzi bassi e la cucina un bijoux. essendo noi forchette, o meglio cucchiai e chopsticks, per nulla timide, ci sfondiamo di delizie lao-thai, chè lo street food da queste parti è tra i migliori al mondo, col suo blend di specialità laotiane, tradizione thai e sempre benvenute interferenze vietnamite.

una delle cose che preferiamo della thailandia sono per l'appunto i mercati.
ce n'è per tutti i gusti, da quelli galleggianti, dove tutto si svolge in barca, agli innumerevoli mercati di strada sparsi per le vie di qualunque città, piccola o grande che sia. si può scegliere tra quelli aperti tutto il giorno, quelli mattutini che aprono alle 5 e alle 9 sono già un ricordo, quelli mattutini ma non così mattinieri che aprono alle 8 e chiudono verso mezzogiorno, quelli pomeridiani, quelli serali in attività dalle 17 alle 21 e quelli notturni che chiudono verso le 2 passate. insomma ce n'è per un after di 24h! più o meno dovunque, soprattutto verso l'ora di cena, spuntano un metro sì e l'altro anche centinaia di bancarelle con ogni ben di dio. i night market poi sono sempre una gioia per occhi e palato e l'isaan non è un'eccezione: zuppe di verdura, pesce o carne, papaya salad, riso in mille salse e idem per gli spaghetti, carne e pesce, sushi, involtini primavera, spiedini fritti, al vapore o alla griglia, qualsivoglia frittume esista al mondo, insalate di pesce, di pollo, di verdura, frutta a go-go già tagliata e pronta da mangiare, uova, frittate e similcrepes dolci o salate, waffles, panini, l'immancabile sezione di insetti fritti, zampe di gallina, pelle di pesce e interiora di qualche povero cadavere, montagne di dolci, caffè, the verde, the bianco, the al crisantemo, frullati e centrifughe di frutta, succo di aloe, spesso pure pasta e pizza e, dulcis in fundo, sticky rice alcolico avvolto in una foglia di banano venduto da donnine coi denti nerissimi di noce di betel. il tutto per strada, spesso con un bel po' di tavolini per riempirsi la pancia in comodità, quasi sempre circondati di negozietti thai-cinesi con adorabili nonne incartapecorite che vendono birrette fresche.

loro sono decisamente carnivori, ma si trova sempre qualche prelibatezza veg ed è facile chiedere ai cuochi di estromettere carne e pesce dalla pietanza che più si gradisce, anche se spesso questo significa vivere scene talvolta esilaranti come quella qui di seguito descritta.
una sera a cena ci avviciniamo a uno dei ristorantini ambulanti di nong khai e ordiniamo un riso con le verdure e una veg noodle-soup. il tizio sorride e illustra alla dolce mogliettina ai fornelli cosa deve prepararci, poi ci guarda, non riesce proprio a trattenersi e sbotta: ma sicuri di non volere neanche un po' di carne?? un ovetto? niente?
poi la conversazione continua più o meno come segue:
noi: no, no.. così è perfetto! grazie mille, tutto a posto..
tizio: ma perchè? un po' di pollo?
n: no, no.. noi non mangiamo carne, grazie.
(e fin qua ordinaria amministrazione nell'asia dei carnivori, ossia fuori dal sub! solo che lui è pesantemente turbato e non riesce a farsene una ragione.)
t: ma da dove venite?
n: italia
t: oddio, ma in italia nessuno mangia carne? (con l'espressione più schifata che umane fattezze possano esprimere, manco gli avessimo detto che a casa nostra siamo tutti coprofagi)
n: macchè! tutti mangiano carne: pollo (la sua espressione allarmata si distende), mucca (comincia a riprendere colorito), maiale (tira un sospiro di sollievo), coniglio (si rasserena), capra (è felice), cavallo (è raggiante), tacchino (ora il suo volto è pura gioia) e pure uccelli, lumache, gatti etc!
t: ah, grazie! mi ero davvero spaventato!
grazie zio. alla prossima!

dopo qualche giorno di rito nella capitale, perchè BANGKOK è sempre un più che degno bentornato, andiamo a KHORAT (NAKHON RATCHASIMA), città tra le più grandi del paese, dove la quasi totale assenza di turisti, l'estrema piacevolezza della gente, l'ottima cucina dei night market e la bella atmosfera che si respira dopo il tramonto lungo la via centrale, gremita di skaters e breakdancers, ci intrattengono per un po'. poco lontano si trova il tempio di PHIMAI, tra le reliquie khmer meglio conservate della thailandia, insieme al suo omologo di phanom rung. datato tra XI e XII secolo, non sarà l'angkor wat, ma è un luogo davvero incantevole. da khorat ci spostiamo a UBON RATCHATHANI dove ci attende il primo approccio al mekong. anche qui passiamo le serate a pasteggiare nel godurioso mercato notturno e poi a smaltire la cena passeggiando per il piacevole mercatino adiacente che espone artigianato, gioielli, vestiti etc. da ubon proseguiamo verso nord lungo le sponde del mekong che marcano il confine laotiano e raggiungiamo la piccola e gradevole MUKDAHAN, dove oltre al night market c'è pure il famigerato indochina market che vende le chincaglierie più improbabili a costo quasi zero. ultima tappa prima di passare il confine è NONG KHAI sulla sponda opposta del mekong, proprio di fronte a vientiane. la differenza col resto dell'isaan si coglie subito. siamo ricatapultati nella thailandia turistica, essendo nong khai al centro delle rotte migratorie dei viaggiatori che si spostano da o verso il laos, ma è sempre possibile stare al largo dai costosissimi ristoranti per turisti o dai bar che attirano la clientela maschile falang mettendo in mostra conturbanti fanciulle parzialmente svestite.

daje, che si va in laos..


INDIA³

2-4 settembre 2013
KOLKATA e il mal d'india che ci prende ancora prima di partire

la dolce calcutta è sempre un diletto, col suo cocktail imbattibile di profonda sacralità e profanissima bolgia quotidiana, tradizione culturale e appeal intellettuale ancora vivi e vegeti, reliquie architettoniche da capitale coloniale miste a strade dense di bordello indiano e una popolazione oltremodo deliziosa. quando arriviamo è mezzanotte, perchè il nostro treno ci ha scaricati alla stazione di sealdah con 7h di ritardo e così, dopo aver ringraziato la madre kali per gli autobus notturni, ce ne andiamo in giro per quasi un'ora nei pressi dell'esplanade bus stand a caccia di una camera, imparando sulla nostra pellaccia oramai narcolettica che a calcutta le bettoloidi indian-style aperte 24h non possono accettare stranieri. per farla breve ci tocca arrancare a piedi nella calda notte bengalese con i maledetti zaini fino a suddler street, la via dei turisti, per trovare un albergo aperto. manco a dirlo tutti quelli che incontriamo lungo la strada ci offrono il loro aiuto. perfino i senzatetto appisolati lungo i marciapiedi emergono dal loro bozzolo di cartone per darci indicazioni e poi si risdraiano, sorridono, salutano con la mano mentre ci allontaniamo e gridano: good night!. come disse il nostro amico sbronzone carnatico, il quale se la ballava giulivamente sul bus hampi-hospet molestando ogni anima viva su cui posasse lo sguardo, “i love my india!”. eh sì..



e poi arriva il 5 settembre, data che campeggia sui nostri biglietti air asia kolkata-bangkok. ci tocca dire arrivederci, mettere fine almeno temporaneamente all'ennesimo viaggio in quella dimensione umana parallela e in parte insondabile che è l'india, dove tutto sembra funzionare secondo leggi spesso aliene per la mente non-indica, e attuarsi in dinamiche che appartengono solo a questo mondo. l'india è sempre e comunque un'esperienza inebriante, che avvolge a 360 gradi e spesso induce nei recettori un cortocircuito da sovraccarico irreversibile. qualsiasi dei sensi sia coinvolto nell'esperire, questo si ritrova costantemente alle prese con input eccessivi e talvolta ingestibili. insomma in india il totale è sempre mooooooolto più della somma delle parti. un'overdose sensoriale costante, assicurata e incurabile.

il naso finisce per assuefarsi agli odori più ricorrenti, un blend originale e inconfondibile che nel nostro immaginario costituisce il profumo dell'india. una mescolanza difficile da delineare di aroma di cibo (esalato da bancarelle, carretti e venditori ambulanti di qualsivoglia sorta che effondono scie di frittume assortito e vapori di chay lungo strade quando all'alba l'india che quasi mai dorme inizia a svegliarsi; o profuso in generose zaffate di ghee, masala e latte di cocco nei curry, con le mille varianti del caso da nord a sud; oppure la fragranza croccante del naan, vulcanicamente eruttato da file interminabili di tandoori incandescenti, o quella meno esplosiva ma sempre sfiziosa del chapati cotto sulla piastra; etc etc etc – ci fermiamo che la lista è pittosto lunga), combinato col profumo della campagna immaccolata nell'india rurale o col tanfo a volte pestilenziale di smog, discariche e fogne a cielo aperto nell'india urbana dell'ultrasaturazione demografica da record, cui si mescolano avvolgenti profumi di incenso, di olii essenziali, di candele e di fiori, per gentile concessione delle onnipresenti puje mattutine e crepuscolari, e quindi il fumo delle bidi o dei chilum. odore che anche a distanza riusciremmo a rievocare prontamente.

le immagini imprigionate dalla retina sono ovunque pura poesia visionaria, di quella che solo il subcontinente sa regalare e che ti fa tenere il dito incollato al pulsante di scatto della macchina fotografica. altro che film di bollywood, le vie delle città sono un fiume umano ininterrotto e caotico in piena costante e a perenne rischio tsunami; l'india sacra dei templi hindu e jainisti, delle moschee, dei gompa buddhisti, dei gurdwara sikh, delle chiese, dei monasteri, degli ashram, delle madrase è la fotografia di un altromondo dove la dimensione quotidiana è compenetrata dal divino e dal soprannaturale in ogni suo aspetto e nella vita di tutti, della contadina bengalese, del pastore kashmiro, dell'ingegnere di bangalore, del pescatore del kerala, dell'infermiera tamil e della casalinga di lucknow; un trionfo a tutto tondo di puje, incensi, canti, riti millenari e folklore misterico da manuale di antropologia attende il viandante curioso ad ogni angolo; i sadhu, bellissimi e sorridenti, percorrono scalzi le strade del sub come raminghi saggi viandanti d'altri tempi; il vasto e variegatissimo campionario umano di bimbi e nonnetti, donne e uomini, spose e mariti, è un mosaico di straordinaria ricchezza etnica, linguistica e religiosa che regala spesso scorci di un'altra era, altrove del tutto scomparsi, come accade ad esempio con le sfilate quotidiane di costumi tradizionali, sari, shalwar kameez, doti, turbanti etc che punteggiano le strade; la sublime meraviglia della natura si dispiega nei fiumi, nella campagna, nelle colline, nelle montagne, nelle foreste, nelle sagome degli alberi sfumate da un alone di nebbia nella luce ovattata dell'alba e offre da nord a sud un susseguirsi di paesaggi indimenticabili e variegatissimi, dal tropical-tamil nadu alla regione himalayana cis e trans, dal deserto del thar al delta del gange, dall'altopiano del deccan alle foreste dei ghati, dalla piana del gange alle spiagge di goa, ovunque visioni celestiali di cui ci si delizia dai finestrini di treni e bus o mentre si cammina lungo sentieri meno battuti per immergervisi appieno; un vortice caleidoscopico accende di colore la vita di strada, col kum kum per la tika, coi fiori della puja, con la frutta sfiziosa nelle bancarelle, con le mura dei templi e delle case, con la stoffa leggera dei sari; 
il mondo affascinante delle indian railways, fatto di viaggi infiniti in sleeper class attraverso il paese immenso, regala incontri tra i più interessanti con gente di ogni sorta, che una volta sì e l'altra anche divide con te qualsiasi pietanza si sia portata appresso, con centinaia di venditori di più-o-meno-tutto-quello-che-esiste-in-india che percorrono instancabili i corridoi kilometrici e sempre pieni zeppi di passeggeri, o con gruppetti di hijra scatenati che richiamano l'attenzione del pubblico maschile con un battito di mani e offrono servizi di vario genere nei bagni dei vagoni; e poi ci sono le stazioni, sempre piene zeppe di moltitudini chiassose che dormono, mangiano e conversano per terra, tanto che non puoi fare a meno di chiederti “ma dove 'ndarai sempre tutti con ste borse, borsette, borsoni, sachi, sacheti, seste e sestini, galine, cavre e ….?”




e la musica del sub, quella che risuona incessante in un medley di risate sguaiate di donne, con il sottofondo costante di cavigliere e bangles (braccialetti) tintinnanti, di urla gioiose di bimbi, di vociare perpetuo (o meglio urlare, chè gli indiani parlano a voce altissima come se fossero tutti affetti da sordità acuta, sbattono le porte giorno e notte, scorrazzano sotto la tua finestra a bordo di motorini ultramolesti, gridano al telefono come se dall'altra parte dovessero sentirli senza l'ausilio del ricevitore, sono curiosi come solo loro e ti bombardano costantemente di domande, per cui le due chiacchere col vicino in bus si trasformano di rito in conversazioni di ore), di brevi pause silenziose al fresco dei templi, di melodie sacre, canti e inni millenari, di bande che suonano per strada nel bel mezzo di allegre parate, di ragazzetti che cantano in mezzo falsetto mentre lavorano o camminano, di cori dei bimbi a scuola la mattina, di clacson insopportabili nel traffico delirante di moto, macchine, tuk tuk, rikscio, ciclorikscio, tanariksciò, camion, bus scassatissimi che vanno avanti per miracolo, sempre e solo trombe bitonali ultradecibel che manco in tutto il resto dell'asia messa insieme, di classiconi di bollywood sparati a palla o di maestosi raga hindustani e carnatici..


oppure la palpabile pienezza che senti al tatto, sulla pelle mentre ti fai largo tra folle oceaniche, avanzando nello struscio perenne che anima le strade, a suon di gomitate, spintoni e frontali sfiorati, come è normale che sia sopra il miliardo, nello sfiorare distratto il liscio della superficie erosa delle statue dove tutti passano la mano, in una carezza al manto peloso delle mucche sacre, in un abbraccio con una donna che ti ferma per strada solo per un saluto, nel bagno di folla degli studenti in gita che scalpitano per regalarti due parole di benvenuto, nelle innumerevoli strette di mano con i giovani che hanno sempre qualcosa da raccontare, nel bimbo che ti si avvicina e sorride, nel nonnetto che ti benedice in una delle mille lingue del sub..

o l'acquolina che si forma al solo evocare il gusto dolce e aromatico del chai e del caffè o quello pungente del fritto generosamente ripieno dei samosa (aloo tiki, sabzi pakora etc), il sapore ricco e burroso dei curry del nord o quello esotico e piccante dell'impareggiabile cucina del sud, l'onnipresente dhal, sempre diverso e nutriente, l'inconfondibile esplosione di masala indiano, la bontà celestiale della frutta, dalle mele e le pesche dell'arco himalayano ai manghi e alle ananas del meridione assolato, la freschezza del lassi e del curd, la botta di energia dei dolci speziati e ultrazuccherati...


e poi il calore umano impagabile che ti investe un po' dovunque: i sorrisi dei bazari, su tutti quelli dei fruttivendoli che ti regalano la frutta (che già di per sé costa zero); la gente per strada che ti aiuta senza che tu debba mai chiedere, con la tipica piacevole invadenza indiana; i servizi fotografici con famiglie intere, giovincelli chiassosi, coppiette in viaggio e squadroni di bimbi meravigliosi; gli abbracci delle donne che sono sempre di una forza travolgente; la gentilezza disinteressata che ti piove addosso praticamente ovunque, soprattutto fuori dalle rotte più battute; la magia ultraterrena delle città sacre tipo haridwar dove l'energia satura l'aria e lo sguardo penetrante di un baba ti trafigge il cuore proprio mentre lui scoppia a ridere come se l'avesse capito; l'anima multietnica, multiculturale e multiconfessionale che fa delle strade del sub un amalgama umano unico al mondo (tamil e ladakhi, punjabi e sikkimesi, bengalesi e kashmiri, etc)..

in india la convivenza di contraddizioni insanabili, contrasti e apparenti assurdità, della miseria più disumana e di una delle classi medie più nutrite del globo, per qualche legge a noi ancora incomprensibile pare avere quasi dell'armonioso: ci sono le arcinote e criticabili dinamiche sociali della gerarchia castale e della condizione femminile che definire difficile è dire niente, entrambe abominevoli agli occhi di uno straniero (come se le caste esistessero solo nella società induista!), ma poi tra le figure più potenti del panorama politico nazionale c'è, tra le altre, una donna di lusiana (sì, quella sull'altopiano di asiago) che non ha manco una goccia di sangue indiano e l'hindi lo parla da l'altroieri (non riusciamo ancora a pensare ad un altro posto dove questo sarebbe possibile; pur considerando che la sua posizione le deriva dall'essere la moglie del defunto rampollo della dinastia nehru-gandhi nonché madre del futuro leader del partito del congresso, sempre nata a vicensa la xè!); i telegiornali di casa nostra l'india la nominano solo per aggiornarci sull'odissea dei marò o per puntare il dito contro gli orrori della violenza (come i recenti mostruosi casi di strupro) ma la realtà è che di norma puoi andartene in giro dovunque, e sottolineamo dovunque perchè noi l'abbiamo fatto, nelle zone più disagiate delle città, nei villaggi di campagna dell'india rurale poverissima, sotto i ponti dove dorme chi non ha altro che se stesso, anche di sera, puoi dormire in stazione di notte coi senza tetto, tutto questo senza che nessuno ti torca mai un capello! a volte ci mettiamo a pensare che se questo cocktail di sovrapopolazione e povertà si materializzasse altrove con ogni probabilità non si potrebbe manco camminare per strada, invece infondo, crimini abominevoli degli ultimi tempi a parte, l'india è ancora davvero sicura. perciò non ci resta che starcene ad ammirare la meraviglia che è la moltitudine dei suoi figli perchè, anche se qui le donne incontrano troppo spesso un destino innominabile, più di tutto l'india è madre, una grande madre che tutto accoglie..

sì, è un mondo che forse non è per tutti. l'india ti sa mettere alla prova in modi con ogni probabilità sconosciuti a chiunque non vi abbia mai messo piede, ti sbatte in faccia senza pietà i limiti tuoi e delle approssimazioni parziali e relative cui ti aggrappi quando ti convinci di sapere, ti spinge oltre quello che hai sempre creduto di conoscere di te stesso, ridimensiona le proporzioni esagerate del tuo ego “occidentale”, perchè dopo un po' che vivi immerso nei suoi numeri da record impari quali siano i limiti dello spazio personale e che cosa significhi davvero condividere il poco in tanti. verissimo, l'india mica è tutta saggezza, spiritualità e trascendenza, anzi si è trasformata in una delle società più materialistiche della terra. tuttavia è ancora satura di un'energia che è difficile trovare altrove, che qui si concentra in proporzoni maggiori, probabilmente grazie all'overdose da contatto umano con cui si deve sempre fare i conti e cui si è costretti talvolta controvoglia. un battesimo di umanità dove in fondo se solo ci si sforza di provare a pensare indiano cambia tutto.
e quindi non resta che capire se si è tra quelli che non sopravvivono al senso di profondo disorientamento, di sdegno, di orrore e di rabbia che può causare al primo impatto, tra quelli che finiscono per oscillare invariabilmente tra odio e amore, o tra gli altri, quelli che una volta che l'india li ha presi non li lascia più, una volta che si sono lasciati stregare dal suo incantesimo non possono più essere curati, perchè se l'india finisce per entrarti nel sangue, se la sua essenza si lega con le tue molecole, allora diventi un malato inguaribile che dovrà convivere col mal d'india in qualsiasi punto dello spaziotempo tu finisca per cacciarti a passare i tuoi giorni. l'india è uno dei pochi posti che quando non ci sei ti manca più di casa tua, di quelli che non riesci manco a guardare una foto senza piangere, che quando chiudi gli occhi ti si presenta davanti coi suoi mille volti di pura poesia, che quando ti capita di sentire profumo di incenso senti una stretta al cuore per il resto della tua vita, perchè nel bene e nel male there's nothing like india, come l'india non c'è niente. e per quanti la amano davvero, essendo magari ricambiati, non sarà mai possibile rendere a parole ciò che la rende un pezzo di cuore. certo è che se la lasci entrare, se le concedi il tempo di mostrartisi per come realmente è, se riesci a guardare oltre la superficie talvolta aspra del suo essere multiforme e contraddittorio, allora lei cambia per sempre il modo in cui vedi il mondo, il modo in cui consideri te stesso, sposta i parametri della tua percezione, risintonizza le tue frequenze, ti mostra l'altra faccia del mondo, del tempo, della vita e della morte. così poi quando qualcuno ti racconta di come sia venuto in india per trovare se stesso non puoi che ridere, una risata non supponente ma pura e spontanea, perchè qui il meglio che può succederti, il dono più grande che puoi ricevere dall'india, è invero quello di perdere te stesso.


qualcuno più abile di noi con le parole ha detto dell'india che “è una cassaforte di umanità, una gigantesca arca di noè stivata di uomini di tutte le epoche, di tutte le civiltà, di creature ancora non addomesticate e deformate dal progresso, ancora non indebolite dal vivere urbano...”. sono pochi i luoghi del mondo dove ti senti così intensamente parte di questo gigantesco corpo -o piuttosto anima- collettivo, dove ti rendi conto che il destino di tutti è infondo il tuo, dove riesci a percepire il cordone ombelicale che ti lega alla terra e a tutti quelli che la popolano con te. e anche se la sua grande ricchezza rischia continuamente e sempre più di essere appiattita dall'avanzata del capitalismo, se la complessa riserva di tipi umani che l'india custodisce sarà forse prima o poi azzerata nella standardizzazione omologante che la globalizzazione si porta appresso, questo è sempre il posto in cui le mucche hanno la precedenza per strada, i naga sadhu vagano nudi nella foresta, i pellegrinaggi verso i mitici luoghi del sacro costistuiscono il più grande dei movimenti di massa, i jainisti camminano con mascherina e scopetta, il vegetarianesimo è una tradizione millenaria etc etc etc.. nonostante tutto sembra che la grande anima indiana stia almeno in parte resistendo al dilagare della tristezza ignorante dei tempi moderni, o del kali yuga –fate voi-, che non ne sia stata soffocata del tutto, ma che anzi la sua più grande forza risieda proprio in quella stessa essenza complessa e eterogenea che il mostro informe del capitalismo vuole cancellare. 


INDIA³
agosto 2013

BODHGAYA
il bihar.
siamo in uno degli stati più disagiati dell'india, cosa che risulta evidente già alla stazione di gaya dove il numero dei mendicanti che affolla i binari è decisamente alto, e poi per le vie polverose e trafficate della città. nella campagna intorno sonnecchiano piccoli villaggi di capanne dimesse che potrebbero tranquillamente ignorare di essere nel XXI secolo, non fosse per gli sporadici motorini che rumoreggiano poco lontano. la popolazione vive per la metà circa sotto la soglia di povertà e da queste parti non è raro trovarsi a dubitare dell'effettiva esistenza del mondo globalizzato. 

se il nepal, e di preciso lumbini, è il luogo di nascita della persona fisica del buddha gautama, il bihar, leggasi bodhgaya, ha dato i natali al buddhismo inteso come sistema filosofico-religioso che fa seguito all'illuminazione del principe siddharta, all'istituzione del sangha e alla messa in moto della ruota del dharma con la prima diffusione della dottrina (a sarnath). è questa zona del subcontinente a fare da sfondo alla vita del buddha storico, considerando anche la relativa vicinanza al bihar delle altre due località fondamentali per il culto buddhista, ovvero la suddetta sarnath e kushinagar, luogo della morte del buddha. il nome bihar trova infatti origine nel termine sanscrito vihara (dimora), che indica la sala di culto principale di un monastero buddhista.
il piccolo paesello di bodhgaya ruota intorno al tempio della mahabodhi e, col suo bel mercato, i barbieri di strada e gli onnipresenti aggiustatutto, è un luogo più che delizioso per starsene seduti a guardare l'umanità indaffarata che passa. anche il mahabodhi temple è costantemente animato da frotte di fedeli buddhisti provenienti da mezza asia, tra cui monaci tibetani, giapponesi, thai, birmani, cinesi, laotiani e chi più ne ha.. non ultimi i soliti pellegrini hindu che, per la tendenza universalizzante della visione induista, vengono ad omaggiare il buddha in quanto ottavo avatar del divino vishnu [come dicono i nostri amici di calcutta a proposito del buddha quale vishnu incarnato: “yes, that's it.. but don't tell the buddhists”, e se la ridono tutti grassamente, perchè l'ironia è sacra pure quando è a sfondo religioso..]. i turisti stranieri invece latitano, con ogni probabilità per via del recente attacco bombarolo di luglio che ha inflitto un notevole calo all'affluenza dei gruppi in visita di cui si lamentano un po' tutti gli albergatori. la bella shikara scolpita è il centro del culto qui a bodhgaya. segna il luogo dove 2500 anni fa il buddha raggiunse l'illuminazione sotto l'oramai proverbiale albero di pipal (ficus religiosa, o albero della bodhi -illuminazione-), il cui discendente è a tutt'oggi oggetto di venerazione. la struttura attuale del tempio è datata V o VI sec dc ma il nucleo originale viene comunemente fatto risalire alla visita dell'imperatore ashoka nel 250 ac, poco più di due secoli dopo la nascita del buddhismo. intorno al perimetro del tempio e nei giardini circostanti capannelli colorati di devoti seguono il percorso rituale tra monaci in preghiera assisi all'ombra dei chaitya, mentre nell'aria risuonano mantra multilingue. l'atmosfera è di quelle che incantano.



a poche ore di autobus c'è nalanda, una delle più antiche università della storia, fondata nel V secolo dc, due volte distrutta e due volte ricostruita perchè continuasse ad essere il centro studi di riferimento per tutto il mondo buddhista, dai mahasiddha tantrici indiani agli eruditi cinesi che tradussero i testi sacri in mandarino. questo fino all'irruzione turca che verso la fine del XII secolo portò alla devastazione definitiva e al conseguente e irreversibile declino del buddhismo in india. 
ci andremmo volentieri ma stavolta tocca accontentarsi di bodhgaya, chè il febbrone da cavallo (evvai anna!) ancora non molla. ne abbiamo già avuto abbastanza per quanto riguarda l'edificante esperienza di intraprendere epici viaggi indiani con 40 di febbre (un bel po' di attesa alla stazione di haridwar per il treno delle 22.30, con l'ottima compagnia di tipo 5000 pellegrini, poi una gran nottata in sleeper class con più o meno le stesse migliaia di persone, un giorno intero alla stazione di lucknow, che avremmo tanto voluto visitare ma sarà per la prossima volta, e infine un altro viaggetto notturno alla volta di gaya!). d'altronde mica potevamo disdire la prenotazione, perchè l'unico modo per trovare un pezzo di sedile dove fare un sonnellino nella sleeper class più affollata del globo e per queste tratte gettonatissime è prenotare con largo anticipo, altrimenti so' cazzi. spostare il viaggio di un giorno significa, salvo miracoli del railway reservation center, stare in piedi in seconda classe o meglio seduti in otto dove sulla carta ce ne stanno tre (seduti, mai sdraiati, per tutta la notte. stavolta passiamo..). poco male, che possono mai essere 40 febbricitanti ore di viaggio quando hai a tua disposizione un miliardo e passa di “infermieri” che ti assistono sul treno e nelle sale d'attesa? appena qualcuno nota il colorito cadaverino si avvicina per assicurarsi che vada tutto bene, finchè l'ometto delizioso che controlla l'accesso alle waiting rooms della stazione di lucknow ci fa accomodare nella sala vip della prima classe anche se abbiamo come sempre il biglietto della più infima, perchè con la febbre bisogna tassativamente stare sdraiati sulle sedie più stravaccati possibile, cioè occupandone minimo quattro. e poi c'è il vicino di posto ipergentile, che pattuglia la situazione mentre dormiamo e si mette a dire a tutti quelli che passano: “no, qua no. ha la febbre, falla dormire. vai a sederti là”.
INDIA³
agosto 2013

HARIDWAR e RISHIKESH

rishikesh
onde fugare qualsivoglia dubbio in merito va detto che, dato il rischio oggettivo di finire invischiati in un covo di occidentali in cerca della proverbiale botta di spiritualità, abbiamo tentennato non poco prima di ripartircene alla volta di rishikesh. poi, accantonata la diffidenza iniziale, decidiamo di farci comunque ritorno, questa volta in tempi un tantino migliori. in fondo, nonostante le orde di turisti rapiti delle suggestioni misticheggianti dell'holy india e qui giunti per placare la loro sete molto fashionable di ritiri spirituali, corsi di meditazione alquanto commercialoidi e ashram stay più o meno autentici, questo resta pur sempre un luogo di pellegrinaggio importante per i fedeli hindu e di conseguenza una meta interessante per chiunque voglia immergersi per un po' nella loro ritualità colorata e coinvolgente.

la capitale mondiale dello yoga è una piccola e pacifica città dell'uttarakhand ai piedi della colline himalayane che dall'oramai lontano '68 ha finito per ritrovarsi puntati i riflettori di mezzo occidente, almeno di quello con la fissa yogica, in seguito alla scappatella indiana dei baronetti del rock, accorsi in quel di rishikesh per ampliare le loro percezioni sotto la guida di maharishi mahesh yogi. quindi, spinti da un profondo senso di comunione psichedelico-misticheggiante, hanno invitato i fan a fare lo stesso al grido di “andate in india e trovatevi un guru”.
per gli hindu invece rishikesh è consacrata a vishnu signore dei sensi. egli infatti qui si manifestò in seguito all'austera penitenza cui si era sottoposto in suo nome rishi rabhya, la quale aveva come fine per l'appunto il raggiungimento del totale dominio sui sensi.
l'importanza del sito è inoltre connessa al fatto che proprio in quel di rishikesh la madre ganga si appresta a lasciare i rilievi delle shivalik hills per immettersi nella piana indo-gangetica all'altezza della vicina haridwar. in più questo è anche il punto di partenza per il char dham yatra, il pellegrinaggio ai 4 santuari del garwhal presso le sorgenti di altrettanti fiumi sacri, onde per cui le strade pullulano di pellegrini.

ad essere onesti rishikesh finisce per coglierci un tantino di sorpresa: complice la bassissima stagione il rapporto turisti stranieri/visitatori indiani è tipo 1/50, il che mitiga non poco quel feeling da disneyland stile lourdes da cui volevamo girare al largo. pur se tutto l'ambaradan di centri yoga più o meno fake e western style, ristoranti e negozi di souvenir è sempre in febbrile attività e per certi versi l'aria da “mecca” dei vacanzieri dello spirito è difficile da ignorare del tutto, l'atmosfera è comunque piacevole. monsone battente a parte, le passeggiate tra ram jhula, lakshman jula e swarg ashram si rivelano più appaganti del previsto, le miriadi di pellegrini ciarlieri che si incontrano lungo le vie e i ghat sono al solito calorosissime e i capannelli di baba raminghi che ci apostrofano con sonori "aryoooo" di venetica memoria un bijoux.
insomma, tutto sommato niente male, anche se di certo rishikesh non può reggere il confronto con quel gioiello imperdibile che è la vicina haridwar.

haridwar, la porta verso dio, è una delle 7 città sacre hindu e senza ombra di dubbio tra le più affascinanti dell'india per l'innegabile piacevolezza delle tranquille viette secondarie, per l'irresistibile opportunità di osservare la quotidianità dell'india sacra da una finestra 100% autentica e priva di accomodamenti tourist-friendly, ma anche e soprattutto per l'atmosfera di pura magia che si respira lungo i ghat e le vie odorose e colorate del bazar.

è qui che il gange termina la sua discesa dalla sorgente di gaumukh e si getta finalmente nella piana cui dà il nome ed è sempre qui che all'alba del mondo cadde una delle quattro gocce di nettare divino (amrita, l'elisir dell'immortalità), versate accidentalmente a haridwar, allahabad, nashik e ujjain, dall'urna degli dei in fuga dai demoni che bramavano di impossessarsene. questo evento viene grandiosamente celebrato nel kumbh mela, il più grande festival mai concepito dal genere umano, con oltre 100 milioni di partecipanti, che qui si tiene ogni 12 anni.
a haridwar è il fiume il tempio più sacro e il punto più rilevante dello spazio cultuale si trova presso il ghat di har ki pauri, il luogo esatto in cui cadde la divina ammonia e in cui una lastra di pietra lungo l'argine inferiore, quindi spesso sommersa delle acque, reca incisa un'impronta di vishnu; qui si trova anche brahma kund, una sorta di piscina naturale che segna l'entrata del gange nella piana, dove il divino brahma concesse a raja shwet la grazia di risiedere in eterno nella celesta haridwar e dove oggi migliaia di devoti si riuniscono per il catartico bagno rituale e la ganga arti, la cerimonia di adorazione della dea ganga, un rito tra i più poetici e ammalianti dell'india induista: ogni sera al tramonto i gradini dei ghat su entrambe le sponde si affollano di fedeli venuti a venerare la madre dei fiumi, immergendovi centinaia di diyas (lampade galleggianti) floreali che scivolano a valle trascinate dalla corrente, come piccoli tentacoli di fiamme che striano le acque scure e si riflettono tra le onde impetuose. i brahmini reggono palle di fuoco mentre nell'aria si elevano inni sacri ritmati dai gong del tempio in uno spettacolo incantato e incantevole di luci, suoni e colori.


i restanti km di ghat sono deliziosamente animati 24h/7gg da orde di fedeli intenti a compiere le abluzioni rituali, venditori di fiori per la puja e baba oltremodo amichevoli, che manco una volta hanno osato chiederci “baksheesh”. in giro per la città poi si incappa in un numero pressochè infinito di ashram e templi, che fanno della santissima haridwar un luogo di gran lunga più indicato di rishikesh per fare yoga in un contesto autentico e meno commerciale.

il bazar, uno dei più “mediorientali” dell'india, è provvisto di ogni ben di dio: articoli religiosi e non, gioielli, cibarie in tutte le salse, the, spezie, vestiti, montagne di frutta e verdura e lassi ghiacciati che sono una benedizione nell'arsura dell'agosto monsonico. lo inseriamo senza dubbio tra le attrattive imperdibili di haridwar e consigliamo vagabondaggi estensivi di ore ed ore nonchè edificanti chiacchierate coi sempre loquaci bottegai.
altra chicca della nostra haridwar è l'offerta gastronomica ipervaria che spazia dai piatti tipici del nord e del sud (così finalmente appaghiamo la nostra brama di idly e dosa!) alla cucina himalayana passando per quella cinese, per soddisfare le esigenze dei pellegrini hindu e dei visitatori che accorrono da ogni angolo del sub a purificarsi nelle acque del gange.
in generale ad haridwar l'india sacra si esprime al massimo della sua suggestione e del suo fascino celestiale che vibra di un'energia tanto rara quanto preziosa e, dulcis in fundo, si fonde con la beltà meravigliosa della sua gente ospitale e amichevole.