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INDIA³

21 luglio – 8 agosto 2013: ladakh

DA KEYLONG A LEH
nella tiepida alba ambrata, che indora un cielo minacciosamente cupo, l'autobus delle 5 di mattina diretto a leh parte con inusitata puntualità dalla stazione di keylong. sale prima lungo il margine settentrionale della bagha valley, attraverso prati smeraldini pur se già piuttosto brulli e ghiaiosi, fino a darcha, l'ultimo insediamento permanente prima della vastità infinita delle vallate himalayane. una fila di dhaba appena aperti ci accoglie per la nostra seconda colazione, quella delle 6, mentre il posto di polizia annota più o meno scrupolosamente i dati dei passaporti di tutti i passeggeri non indiani. da darcha poi si punta al passo, il primo dei tre che ci separano dal leh, il baralacha la a 4950 m. lo valichiamo proprio mentre i primi lembi d'azzurro squarciano il fitto manto plumbeo sopra le nostre teste e un pallido sole si posa sull'ultima neve che ancora stria di bianco le maestose fortezze di pietra tutto intorno.

poco oltre incontriamo bharatpur city (di cui in realtà tutto si può dire tranne che sia una city), il primo di una lunga serie di agglomerati stagionali di dhaba, attivi solo in estate quando la strada è praticabile, che se stanno enigmatici nel bel mezzo di un nulla quanto mai lunare ad attendere i viaggiatori affamati in transito lungo la leh-manali. di tanto in tanto lampi di rosso infuocato o giallo ocra accendono d'improvviso la roccia cinerea, saturando le mille sfumature grigiastre di questa pietra quasi extraterrestre. ben presto il cielo si fa del blu più terso che c'è, mentre fuori dal finestrino sfila sarchu, con la sua manciata di tende, da cui la statale inizia di nuovo a salire, fino a giungere ad una serie di curve tortuose, serpeggianti lungo il fianco di deliziose montagne dorate, a strapiombo sulla ripida gola del fiume, con panoramica da cartolina sulle valli colorate in lontananza. un bijoux. l'autobus quindi affronta agilmente (qui la strada è asfaltata e piuttosto ampia per quasi tutto il percorso fino a leh; il potere del tourism business!) i gatha loops, altri 21 tornanti che scalano i 5060m del lachlung la. quando scendiamo dal passo è ora di pranzo e facciamo tappa a pang, l'ultimo ammasso di dhaba prima che il nostro autobus si spinga ulteriormente nel cuore dell'himalaya. e poi è il nulla, un nulla sublime che toglie il fiato e che si dipana immacolato attraverso praterie dal sapore di mongolia, vallate da cineteca e favolosi canyon intarsiati, fino al taglang la, il più alto dei tre passi, a 5328m, (nonché tra le strade carrabili più alte del mondo; la prima di queste attraversa il khardung la a nord di leh in direzione della nubra valley – 5602 m, anche se l'altezza effettiva e il conseguente primato sono oggetto di controversie). pioviggina, il freddo è pungente e la desolazione del paesaggio memorabile. altrettanto non si può dire delle condizioni di lavoro precarie e massacranti degli operai addetti alla manutenzione del manto stradale, costretti a dormire in tende posticce allestite in campi improbabili nel freddo polare della notte a 5000 m. tutti indiani provenienti dal bihar o da qualsiasi altra delle zone più povere e disagiate del paese, oppure nepalesi strappati alle loro case con la prospettiva di guadagnare una manciata di rupie in più che in patria, ma pur sempre uno stipendio infimo. noi passiamo sul gov bus e loro sorridono e salutano. chissà se i turisti che se la spassano bellamente a bordo di jeep nuove fiammanti, con tanto di AC e autista privato, hanno pensato per un solo momento alle migliaia di rupie che hanno sganciato per il taxi e al fatto che i loro fratelli indonepalesi devono sgobbare più di un mese per guadagnarsele.


oltre il passo si apre la valle dell'indo, o meglio una laterale, e l'autobus transita veloce per rumtse, lato, miru e gya, una serie di bei villaggi ladakhi di basse case bianche avvolte intorno ad antichi stupa in pietra, mentre la vallata si fa tanto stretta da sembrare quasi un canyon di petra e il torrentello azzurro scava il suo corso tra le montagne rossastre. quindi a upshi arriviamo finalmente lungo le rive dell'indo e la bella piana del fiume si dispiega dinnanzi ai nostri occhi, splendente del verde delle sue sponde alberate, fitte di pioppi, betulle, albicocchi, olivelli e salici. proseguiamo così fino a karu, un paesello con più caserme che case, i cui dintorni sono una distesa infinita di campi di addestramento murati, alloggi per le truppe, aree di servizio, magazzini e strutture logistiche, insomma un'orrida sarabanda di scempi che da noi si chiamano ecomostri, il cui grigiume inquina inesorabilmente la bellezza e la purezza del paesaggio. la loro presenza, massiccia e invadente dovunque occhio può vedere o quasi (sono pochi i luoghi della valle liberi da installazioni militari), ben illustrano l'ansia da conflitto e la paranoia da nemico alle porte che attanaglia certi settori della società indiana, alle prese con la costante consapevolezza (??) di essere circondati su ogni lato dagli antagonisti di sempre (su tutti pakistan e cina).

insomma la follia pura per cui l'india ha messo insieme un esercito tra i più grandi del globo e sprecato risorse infinite in un inarrestabile delirio guerrafondaio, quando investendo opportunamente le stesse cifre sarebbe stata in grado di risanare mezzo paese. e invece eccoli ancora oggi, oltre 60 anni dopo, a cavalcare le stesse idiozie nazionaliste e a farsi sospingere dagli stessi venti d'odio settario che hanno condotto alla tragica divisione del paese nel '47. tutto ciò senza che nessuno sembri avvedersi di come la partition sia in realtà l'ultimo colpo di coda del colonialismo inglese, più che il risultato delle ferite insanabili prodotte dalle diversità intrinseche della società indiana, le cui anime differenti avevano sino ad allora convissuto, talvolta in modo turbolento d'accordo, ma convissuto. i suoi mille volti sono in ultima analisi proprio quello che rende l'india l'universo variopinto, multietnico e multiconfessionale, la cassaforte di umanità, che tanto piace a noi. e quindi la corona inglese, indispettita e impotente di fronte all'eroismo umano di gandhi e di quanti l'anno seguito, ha pensato bene di fomentare e appoggiare le spinte indipendentistiche interne per lasciare un bel regalo di indipendenza agli ex-sudditi esotici di sua maestà la regina, causando lo smembramento della neonata nazione indiana, la conseguente disastrosa carneficina e l'odio etnico-religioso cui tanto il mahatma si era opposto. pace alla sua grande anima.


su queste note l'autobus arriva presto a destinazione e notiamo con piacere come pure leh sia circondata da basi militari invasivissime. fa sorridere pensare a come il ladakh sia da un pezzo una delle regioni più visitate del subcontinente, quando, e ce l'hanno confermato i locali, qui manco avrebbero costruito strade e aeroporto non fosse per l'importanza militare strategica della zona.

benvenuti in ladakh, terra di gompa. sì, e di caserme.

LEH

esercito a parte, la valle dell'indo è un miracolo dell'integrazione uomo-natura, una lingua di terra assolata e arida, circondata da ghiacciai millenari e dalle solite montagne di mille colori, strappata dalla sabbia del deserto e resa verde e fertile grazie ad un'opera di canalizzazione dell'acqua che ha del prodigioso. leh è incastrata in un tratto della spianata racchiuso tra il fiume e le montagne, dove la valle dell'indo sale verso il khardung la.

la sagoma del palazzo e il profilo aguzzo dello tsemo gompa sono il marchio distintivo che la caratterizza da lontano, mentre poco sotto si dipana la matassa aggrovigliata della città vecchia, coi suoi stretti vicoli lastricati su cui si affacciano casette di fango e pietra, che digradano fino alla via principale del main bazar e alla zona delle moschee e delle botteghe del pane. c'è una bella atmosfera per le vie del borgo antico, anche se in tutta onestà, con le frotte di turisti che assalgono il ladakh ogni anno, uno potrebbe, e a ragione, aspettarsi un livello di cura e conservazione di molto superiore, perchè davvero la parte storica della città langue in uno stato pietoso. a quanto sembra è in corso un progetto di recupero e restauro del palazzo e del quartiere sottostante, ma i tempi di realizzazione si prevedono nella più rosea delle prospettive biblici e nel frattempo ad accogliere il visitatore ci pensano invitanti cumuli di macerie, il costante "sabor" di latrina che, per dirla con un francesismo, soffonde aromi di merda e piscio in ogni direzione, e le onnipresenti montagne di rifiuti (va detto che siamo in india da un bel po' e ne abbiamo viste di tutti i colori, ma qui abbiamo toccato il fondo del trash per quanto riguarda una zona di grande interesse turistico). uno spettacolo a dir poco deprimente. dal lerciume dei vicoli maleodoranti si ascende in un baleno al leh palace, attraverso pittoresche scalette in pietra che raggiungono prima tre vecchi gompa nelle immediate vicinanze dell'ingresso della residenza reale. ci garberebbe pure visitarli questi monasteri, non fosse che il tutto è in un triste stato di abbandono: l'interno del soma gompa è pesantemente diroccato e la famiglia di custodi pare non trovare niente di meglio da fare che stendere i panni ad asciugare tra le colonne lignee vecchie di secoli. di immondizia non c'è mai penuria e questi, più che prendersi cura del sito, sembra quasi si impegnino a insozzarlo ulteriormente. poi però per farti aprire la porta della sala di preghiera devi comunque sganciare 30rs. allora facciamo dietrofront, sperando in una sorte migliore dalle parti del chandazik gompa poco lontano. macchè. questo sembra addirittura messo peggio ed è pure chiuso. alla biglietteria, di fronte alla nostra richiesta di chiarimenti, manco sanno darci una motivazione. mah. proviamo pure col chamba lakhang, anche se oramai abbiamo capito l'antifona e ci aspettiamo il peggio, e infatti lo troviamo manco a dirlo decadente e sigillato. possiamo dire, senza tema di smentita, che si tratta del complesso monumentale peggio conservato su cui abbiamo messo gli occhi nel nostro lungo soggiorno indiano. per non parlare delle sale interne del palazzo.


la versione ufficiale delle autorità e delle guide millanta l'apertura del suddetto cantiere di restauro, e in effetti all'interno scorgiamo traccie di lavori in corso, ma, anche volendo bersela, le fasi di lavorazione sono a dir poco in alto mare e ce ne sarebbe da ridire per un secolo almeno. ecco. peccato!, perchè in realtà leh avrebbe tutte le carte in regola per essere una destinazione culturale di tutto rispetto, col suo palazzo e i suoi gompa. con ogni probabilità al governo indiano il ladakh sta a cuore più per la sua posizione strategica e per il suo potenziale militare che per la cultura e il patrimonio e, a quanto sembra, nemmeno il dalai lama e le autorità buddhiste sembrano dissanguarsi per evitare che cotanta beltà sia lasciata a morire tra i rifiuti e gli olezzi da vespasiano.
dalla parte opposta del crinale almeno il namgyal stupa e guru lhakhang shrine vantano un'ottima location, che regala apprezzabili vedute a 270 gradi sulla città e i dintorni dall'alto di un bel picco roccioso e, sopra il palazzo, lo tsemo gompa troneggia su tutto lo spazio urbano.
intorno alle vie centrali di leh bianche casette basse, circondate da mura di pietra a delimitare orti e giardini verde smeraldo, si susseguono lungo viali alberati attraversati da piccoli rivoli di acqua. nei paraggi poi si incontrano lo shanti stupa, la pagoda della pace giapponese, un edificio nuovo e poco impressionante, da cui però si ammira un bel panorama su tutta la città e la vallata, quindi il cubo del nazer latho, il bizzarro santuario della dea protettrice di leh, adagiato come uno scrigno bianco sulla cima di una montagnola con picchi innevati sullo sfondo e un'invidiabile cornice di ripetitori e antenne, e infine diversi altri stupa e gompa disseminati tra le stradine periferiche.
è già passata una settimana, un'idea ce la siamo fatta e tanto basta per poter dire di leh che, anche se rimane rilassante e piacevole, è un po' troppo turistica per i nostri gusti, piena com'è di negozi di souvenir, agenzie, ristoranti e mercatini dei rifugiati tibetani.

senza dubbio l'aspetto più intrigante del ladakh è la convivenza, l'incontro, delle sue anime diverse. anche se la peculiarità culturale della zona è certo la tradizione buddhista, per cui sono agilmente rintracciabili similitudini col vicino tibet (o almeno così dicono, perchè noi mica ci siamo mai stati), la prossimità col kashmir musulmano dà luogo ad un'interessante e forse inedita commistione di buddhismo e islam, di facce dagli occhi a mandorla e dai tratti mediorientali, di tradizione culinaria buddhista-himlayana e mediorientale-afghano-pakistano-iraniana. nell'aria risuonano i mantra buddhisti, intonati dai monaci durante le puje quotidiane dei monasteri, ma s'ode anche il canto dei muezzin che salmodiano dai minareti.
in fondo perciò niente di male se ne può dire, ma davvero non capiamo un'affluenza tanto consistente di visitatori, considerando che spiti ci ha incantato molto molto di più.
esageriamo? magari basta uscire da leh per godersi quello che un ladakh più autentico ha da offrire.
ed è quello che facciamo.

LA VALLE DELL'INDO da STAKNA a LAMAYURU


a fare da contraltare al pandemonio di basi dell'esercito ci pensano per fortuna i meravigliosi paesaggi che regala la valle, plasmati a meraviglia dalla luce che disegna sfumature misteriose sulla superficie rugosa delle montagne. da leh muoviamo prima verso sud e ci fermiamo a shey, che fu la sede dei reali del ladakh dopo leh. oggi il palazzo, costruito nel 1650 da re deldan namgyal, ospita ancora al suo interno il namgyal chorten, lo stupa della vittoria, più grande del ladakh, e nel dukhang (sala di preghiera) una statua del buddha shakyamuni seduto alta 7,5m. 

uno tra i più bei gompa della valle per la ricchezza del complesso architettonico è senz'altro quello di thiksey, che raggiungiamo con un'agevole passeggiata di 5km da shey. sorge sulla cima di un rilievo, da cui si domina un bel tratto della valle e sulle cui pendici è disposta una serie armoniosa di edifici tradizionali, tra cui si insinuano viuzze strette e panoramiche che scendono fino alle strade polverose del villaggio omonimo, gravitanti intorno al gompa. oltre che delizioso e fotogenico, è però anche tra i più turistici e perciò poco autentico e un tantino commercialoide. bastino i prezzi del ristorante, la jeep iperlussuosa con cui vediamo arrivare alcuni dei monaci, i quali sfoggiano sempre e comunque smart phone e portatili nuovi di zecca, e gli operai nepalesi, tra cui anche bambini, alle prese coi lavori di manutenzione e restauro di alcuni degli edifici, a rendere l'idea di quello che non ci è piaciuto per niente. le sale principali del complesso ospitano affreschi interessanti e una statua a tre piani di maytreya con una corona dagli intarsi pregiati. poi è possibile assistere alla puja mattutina o pomeridiana, pur se la si deve condividere con decine e decine di gruppi in visita, scorrazzati da uno all'altro dei gompa principali della valle da colonne di jeep a noleggio. infine c'è anche un piccolo museo che raccoglie una collezione di manufatti e thangkha tibetani.

all'ingresso alcuni pannelli esplicativi lamentano l'enorme problema delle infiltrazioni di acqua piovana dal tetto che, nella stragrande maggioranza dei monasteri (e per fortuna in ladakh piove poco), erodono gli strati di colore, rovinando irrimediabilmente gli affreschi, e illustrano anche gli interventi conservativi di alcune equipes europee. peccato che poi nel gokhang assistiamo allo spettacolo pietoso offerto da due giovani monaci, forse un po' sprovveduti per carità, che durante la puja improvvisano giochi d'acqua con un secchiello, schizzando tutto un tratto di parete affrescata. bella cultura di conservazione. per fortuna ci pensano i restauratori europei a riparare agratis i danni causati dal water leaking! vabbè l'impermanenza e tutto il resto, ma se questa è la tutela del patrimonio.. anche qui comunque 30rs a cranio se le intascano, manco a dirlo. e intanto un tubo in giardino continua inspiegabilmente a vomitare a vuoto litri e litri di acqua per tutta la notte. alla faccia del deserto e della salvaguardia dell'ambiente!



poi c'è hemis. anche se non ci intriga per niente il fatto che sia il più visitato e turistico tra i monasteri della valle, valutiamo l'idea di farci un giro lo stesso, anche se con qualche riserva in merito all'esorbitante tariffa di ingresso di ben 100rs a cranio. d'altronde questa è la sede della scuola kagyu drukpa, con tanto di trono del XII gyalwang drukpa, il lama occhialuto il cui volto serafico e inquietantemente sorridente campeggia sui cruscotti delle macchine di due terzi dei ladakhi. ecco, quindi P-A-G-A-R-E. a noi sembra sempre fuori luogo che sia previsto un biglietto per visitare un sito religioso, dovunque nel mondo, e abbiamo il sospetto che si tratti di una trappola per turisti. quando arriviamo a karu da stakna ci dicono che l'unico bus che sale fino al monastero è passato da poco, perciò non ci resta che chiedere ai minivan collettivi. per fare i 6km poco più fino a hemis gli autisti vogliono la bellezza di 250rs sola andata e altrettanti al ritorno! ora, passi il costo della benzina che quassù è in effetti proibitivo, ma se questo è uno dei luoghi più visitati del ladakh e se, come dicono, le istituzioni e in primis i cittadini tengono davvero così tanto alla protezione del fragile ecosistema della regione, perchè mai c'è solo un autobus al giorno? siamo sicuri che qui si stia davvero promuovendo questo famigerato ecoturismo con cui sembrano tutti pronti a riempirsi la bocca? la stragrande maggioranza dei turisti gira la valle con una macchina con autista privato, (ne sfrecciano a centinaia a destra e a manca in barba al fatto che il carburante costi un occhio e arrivi da chissà dove), che di fatto inquina più dei mezzi pubblici e, come se non bastasse, è quasi sempre semivuota! ecco servito l'ecoturismo! e addio hemis, che ci sono già girate le palle!


stakna - il piccolo gompa di stakna si erge solitario sulla sponda opposta del fiume, cui si accede con un piccolo e stretto ponte. se ne sta arroccato al sole in mezzo al nulla, è poco visitato e gli affreschi sono stati ridipinti di recente, ma l'atmosfera è comunque piacevole perchè qua di turisti non c'è manco l'ombra!

poco lontano sorge il villaggio di matho, che pensiamo bene di raggiungere a piedi da stakna sotto il sole più cocente e non contenti a piedi torniamo pure. non è male, ma di certo niente di esaltante. degni di nota i soliti restauri per nulla conservativi, che fanno tabula rasa di tutto quanto era rimasto delle pitture originali. per il resto più che altro porte chiuse e nessuno in giro per aprirle. e poi la solita torre dei telefoni, perchè non sia mai che i monaci non possano usare il cellulare!

la colonia tibetana di choglamsar, appena fuori leh, ospita un paio di centri di meditazione e studio e un gompa. noi ci fermiamo qui per visitare stock che sta dall'altra parte del fiume all'ombra dello stok kangri (6153 m), ma poi scopriamo che il giorno dopo il nostro arrivo è prevista la visita del dalai lama, per una serie di conferenze e convegni, e che il comitato di accoglienza ha organizzato un benvenuto degno del kundun. centinaia di persone in sgargianti costumi tradizionali tibetani e ladakhi si mettono in fila verso le 8 e mezza e aspettano fino alle 11 che passi l'auto del dalai lama per cogliere il fugace cenno della sua mano benedicente e un fotogramma dei suoi occhiali da sole dietro il vetro oscurato. e poi finisce tutto, almeno lungo le strade. 


non che non ce lo aspettassimo, ma siamo comunque perplessi, almeno quanto lo saremmo di fonte all'omologa passerella papale: centinai di vecchietti tibetani se ne stanno sotto il sole per ore e ore per vederlo sfilare un secondo in macchina. non importa, ci dicono, per noi vedere il dalai lama importa più di ogni altra cosa. poche ore di attesa sono nulla, aspetteremmo anche giorni. certo, siamo di fronte a quello che per loro è il fulcro dell'identità nazionale e la guida spirituale e religiosa, il buddha vivente, l'incarnazione terrestre di avalokiteshvara etc etc, ma a noi sembrano comunque tutti preda di un eccessivo quanto dannoso culto della personalità. pur se la sfilata in costumi tradizionali è stata un'esperienza grandiosa, rimaniamo comunque dubbiosi, soprattutto perchè la maggior parte dei fedeli accorsi sono donne, che sembrano inspiegabilmente cogliere solo la dimensione positiva del loro culto e non chiedersi ad esempio perchè i lama di alto lignaggio siano sempre e solo uomini. davvero il buddhismo, soprattutto il tantrismo tibetano come si dice, garantisce la parità dei sessi e rivaluta il ruolo della donna nella società e nella vita spirituale rispetto alle altre religioni?? a noi sembra piuttosto che sottese a tutto questo ci siano le solite dinamiche di potere trite e ritrite che il buddhismo in tutte le sue forme condivide con gli altri sistemi religiosi, anche se i suoi seguaci lo negano tanto animatamente.

stok - nell'arsura di una giornata bollente come non mai, che quasi ci pare di vedere miraggi sahariani, attraversiamo la piana a piedi per qualche km in direzione di stock, fino a che un gentilissimo camionista kashmiro ci dà un passaggio e ci salva dall'essiccamento. il piccolo villaggio è delizioso, con le solite stradine fiancheggiate da mura di pietra che contornano campi d'orzo, orti rigogliosi e prati di fiori gialli. il palazzo reale, ultima residenza dei reali del ladakh, è stato questa volta restaurato in maniera più che soddisfacente, almeno all'esterno.

spituk - di là dell'aeroporto da leh, praticamente inglobato in un trionfo disgustoso di caserme, il gompa di spituk è un monastero gelugpa del XII secolo. anche qui però è praticamente tutto chiuso, a parte il santuario sulla cima, dove le donne locali pregano vajrabhairava perchè conceda loro un figlio. militarizzazione incalzante a parte, è interessante.

phyang è un adorabile villaggio nel bel mezzo di una vallata verdeggiante dominata dal gompa omonimo che la sorveglia dall'alto di un rilievo. 
il monastero è stato rinnovato, ma permangono porzioni più vecchie che risalgono al nucleo originale del XVI secolo. stradine ombreggiate raggiungono il limite superiore della valle, dove sorge una deliziosa guest house a conduzione familiare italo-ladakhi in splendida posizione panoramica. ciao cristina!

basgo è un altro bel villaggio, con casette di mattoni di fango e campi, che abbiamo la fortuna di visitare nella luce sfumata del mattino. saliamo verso il complesso che ospita il chamba gompa, guarda caso pure questo attualmente chiuso per lavori di restauro, il serzung temple e tutto intorno rovine derelitte della cittadella fortificata. sarà anche patrimonio dell'unesco, ma cade tutto a pezzi e i soliti metodi barbari di restauro danno poche garanzie di sicurezza. i lavori sembrano affidati a personale non specializzato, ci sono addirittura bambini che trasportano i carichi di sabbia, e per liberare il tetto dalle tonnellate di materiale usato per sistemarlo, gli operai sollevano un polverone pazzesco che inevitabilmente finisce per entrare nelle sale affrescate! per fortuna il piccolo santuario di maytreya è delizioso, con antiche e interessanti pitture dai classici soggetti tantrici.

insomma in giro per il ladakh, molto più che a spiti, ci siamo imbattuti nel degrado più totale del patrimonio storico-architettonico, quasi ovunque in preoccupante stato di decadenza e incuria. e pensare che in tibet si grida di continuo alla distruzione dell'immensa ricchezza custodita nei monasteri vajrayana da parte dei cinesi, arrivando addirittura a ipotizzare il genocidio culturale. qui invece, dove nessun invasore occupante limita le operazioni di tutela, è tutto lasciato a marcire. evidentemente ciò che importa è il business, i cari e vecchi dollars, argomenterebbe la voce del cinismo. peccato che raramente sbagli.

likir è decisamente uno dei gompa più belli che abbiamo visto, in posizione splendida a 5km dalla statale leh-kargil, imbucato in cima a una vallata verdeggiante, con il primo nucleo del monastero  datato 1051.


ammiriamo le pitture molto interessanti della sala principale e nel gokhang incappiamo in una puja in grande stile, con tanto di copricapi e abiti tradizionali e accompagnamento di piatti, tromboni e damaru (tamburi rituali). solo che invece del classico chay i monaci si sparano “bozzoni” da 2lt di pepsi e montain dew. eccola la spiritualità in salsa global!

alchi - come al solito noi becchiamo l'orario di calma piatta e non c'è un bus che da saspol raggiunga la pur vicina alchi. fa decisamente troppo caldo per farsela a piedi con gli zaini sotto il sole cocente di mezzogiorno e così ci toccherebbe aspettare chissà quanto, non fosse per il provvidenziale gentilissimo intervento di un funzionario del governo, un delizioso e loquace ometto sikh, che ci fa salire a bordo della sua auto di servizio e ci accompagna fino alle porte del choskor complex... grazie! alchi è dopo leh la destinazione più gettonata della valle, però stavolta il grande afflusso di turisti è giustificato, perchè davvero le pitture murali dei templi sono le più belle che abbiamo visto in ladakh. finalmente anche dal punto di vista artistico qualcosa che sia degno della fama della regione e della bellezza del suo paesaggio. nel complesso monastico di choskor, fondato nel X secolo dal grande traduttore da rinchen zangpo, ci sono 4 templi cui si accede tramite 4 minuscole porte. dentro ciascuno di essi si schiude un mondo incantevole, soprattutto nel sumtsek temple, che è completamente ricoperto di immagini di buddha in miniatura su sfondo blu. l'atmosfera suggestiva ci ricorda le sale dei templi egizi e la fattura raffinata delle decorazioni restituisce un effetto complessivamente splendido. anche gli altri tre, pur se meno spettacolari, sono altrettanto interessanti. insomma alchi merita di certo una visita.

lamayuru - da khalsi non ci sono bus e allora ci facciamo accompagnare da 3 camionisti kashmiri, attraverso un paesaggio lunare a dir poco strabiliante. welcome to moonland! qui la valle del fiume ha scavato canyon stretti e spettacolari lungo le pareti rocciose giallo ocra o grigio perla delle montagne e castelli di roccia striati di nero degni della cappadocia spuntano un po' dovunque. e poi, dietro una curva, appare improvvisamente lamayuru, con le sue stradine fitte di casette tradizionali e scalette lastricate che si arrampicano verso la cima di un picco, dove il gompa più antico del ladakh se ne sta arroccato a dominare il villaggio. all'interno è visibile la grotta dove meditò naropa, il mahasiddha tantrico allievo di tilopa. carino.

in conclusione sì, forse basta uscire da leh per godersi un ladakh più autentico, un tantino più puro, anche se purtroppo la lunga mano del turismo ha già contaminato in maniera irreversibile la purezza e l'autenticità originali. perfino i locali (parliamo con un ragazzo che vive e lavora da 10 anni negli usa ed è tornato per la prima volta al suo villaggio quest'anno) lamentano il fatto che la maggioranza della popolazione oramai non viaggia più coi mezzi pubblici, preferendo la comodità della propria auto, che il livello superiore di benessere ha causato l'abbandono di una porzione consistente delle terre da coltivare o che un sacco di gente ha smesso di dedicarsi all'agricoltura personalmente e ha optato per assumere lavoratori stagionali (sottopagati) da nepal e bihar (gli stessi che dormono sulle tende più improbabili lungo la statale da manali a leh e riparano le strade a 5000 mt d'altezza o che lavorano nei cantieri di restauro dei monasteri), così le tecniche tradizionali di coltivazione, le colture tipiche e l'attaccamento alla terra sono invariabilmente perduti, che ora tutti o quasi preferiscono acquistare la frutta e la verdura proveniente dai mercati di delhi, molto costosa e per giunta piena zeppa di pesticidi, a scapito del consumo dei loro stessi prodotti, biologici e a km zero, perchè si fanno abbindolare dalle fregnacce riguardo il sapore migliore e la maggiore qualità (siamo al ridicolo), che il trend imperante è quello di costruire strade su strade e alberghi e agenzie e negozi e pompe di benzina, che in generale l'obiettivo da raggiungere per tutti o quasi resta una vita conforme al modello occidentale, anche se questo significa la compromissione e l'abbandonando delle proprie tradizioni e la perdita della propria identità culturale. parola di ladakhi. 


certo che ognuno può ambire a una vita meno faticosa, a qualche comodità in più, ma rinnegare le proprie radici porta a quello stesso sradicamento culturale che vive l'occidente globalizzato. anche se in questo senso tutto il mondo è paese, almeno nell'india rurale (in odisha e west bengal per esempio, e in netta contrapposizione con l'india urbana, moderna, occidentaloide e ricca) le tracce del passato e dell'identità locale sono ancora vive e vegete nei vestiti, nelle abitudini, nelle speranze e nello stile di vita della maggioranza della popolazione, giovani compresi. qui in ladakh la metamorfosi invece pare più veloce e irreversibile. le fasce più povere comunque continuano a lavorare in condizioni pessime (le donne spaccano pietre 10h al giorno sotto il sole per poche rupie) e a condurre una vita dalla durezza d'altri tempi, ma i monaci non sembrano lasciarsi turbare da tutto questo, anzi si rinchiudono dentro le loro fortezze e sfoggiano con buddhica serenità il loro più recente acquisto, o regalo, tecnologico all'ultima moda.
a noi sembra proprio che, nel segno mortifero della globalizzazione, il vaticano tibetano, che mai è stato innocente, incorrotto e illuminato, non sfugga nemmeno oggi alle leggi poco francescane che regolano quello romano.
che dire? con spiti a nostro parere non c'è partita. ce l'abbiamo nel cuore.

ci risiamo, insomma. pare proprio che dovunque il turismo penetri in proporzioni massicce, ecco, quel posto finisca per marcire irrimediabilmente. forse. o forse no. e lo diciamo da turisti, cosa che in fondo, per quanto si possa essere in parte consapevoli, è giusto ammettere di essere. resta il fatto che a zonzo per certe zone del ladakh ci è sembrato di raggiungere quasi i livelli di contradditorietà e immoralità del t0urism business rajasthano. 
sì, da qualche parte, nel silenzio di queste valli, probabilmente ci sono ancora posti dove la naturalezza e lo spirito puro di questa terra non sono stati corrotti. forse dove serve un permesso? dove si arriva solo in jeep e quindi costa un occhio? dove non giungono i grandi flussi dei vacanzieri mainstream? 
forse. ma ci è passata la voglia e quindi ce ne andiamo.
INDIA³
22 giugno - 20 luglio 2013: himachal pradesh

:::PARTE SECONDA:::

SPITI
spiti, la “terra di mezzo”, è una valle transhimalayana dell'himachal pradesh nordorientale che si estende, come il nome eloquentemente anticipa, al confine tra due mondi da sempre in comunicazione, ovvero india e tibet. come il ladakh anche spiti infatti può essere considerata quasi un frammento di tibet entro i confini indiani, sia per quanto riguarda la morfologia del territorio, che è affine al deserto freddo dell'altopiano tibetano, che per le sue caratteristiche culturali, essendo una zona a maggioranza buddhista (buddhismo vajrayana), dove si parla una lingua tibetana e la popolazione ha i tratti tipici delle genti d'oltre-himalaya.
siamo invero curiosi. e allora si parte.

lasciamo manali all'alba a bordo di un autobus che più pieno non si può. la strada percorre il margine settentrionale della kullu valley, tra foreste lussureggianti, prati verdi e pascoli di alpina memoria, cascate che scintillano nel sole, piccoli villaggi montani e sullo sfondo giganti di neve di una bellezza commovente. poi, all'ombra delle vette maestose, la statale prende a salire lungo ripidi tornanti, da cui si godono vedute indimenticabili, su fino ai 3978 mt del rohtang la, che segna l'ingresso nella bella lahaul valley. il primo dei 2 passi che dobbiamo attraversare per raggiungere spiti porta il nome incoraggiante di pila di cadaveri, ma il panorama è sempre incantevole e il nostro autobus scende in fretta fino al bivio per keylong e il ladakh, lasciandoselo subito alle spalle e svoltando ad est lungo un'improbabile pista sterrata che corre su di un letto di massi e che l'asfalto certo non l'ha mai visto. e in fondo è molto meglio così. proseguiamo fino al limite della valle lungo il corso del chandra river, osservando ipnotizzati il paesaggio farsi più roccioso e perlaceo e il verde scomparire man mano che avanziamo, fino a quando la strada inizia a salire di nuovo verso il prossimo passo serpeggiando su di un mare ghiaia. 

in un nugolo di polvere grigiastra l'autobus si arrampica fino ai 4551 mt del kunzum la, dove si ferma una mezzoretta per consentire ai devoti buddisti di pregare presso gli stupa sulla cima, mentre noi contempliamo la distesa brulla e immacolata di pascoli silenziosi dove yak e pecore pasteggiano placidi, incorniciati da ghiacciai e montagne innevate. ci guardiamo increduli, perchè certo mai avremmo immaginato di poter ammirare tali scorci di meraviglia himalayana dal finestrino di un autobus! dal kunzum la scendiamo lentamente lungo la gola scavata dallo spiti tra montagne di mille colori che, non fosse per i 4000 metri slm, ci ricordano l'altopiano desertico iraniano, le colline surreali e i camini delle fate della cappadocia, i paesaggi dell'anatolia centro-orientale o i canyon rossastri del sinai e di petra. 

l'ingresso nella spiti valley è quasi uno shock estetico, i sensi vacillano per un attimo, disorientati di fronte alla pioggia di luce che li investe come un'epifania nelle giornate di sole o fende d'improvviso le nuvole rapide in quelle velate, e al trionfo di colori che accende il grigio perlaceo e glaciale di lahaul di tonalità vivaci, in seducente contrasto con un cielo che è blu come non mai, come può essere solo quassù, un blu così profondo, denso e avvolgente che con un salto quasi pare di potervisi immergere. a fondovalle intanto il fiume scivola sereno e si ramifica in mille tentacoli brillanti, disegnando geometrie armoniche di meandri sinuosi e anse arabescate e scolpendo incantati castelli, megaliti formosi e piramidi appuntite con la sabbia d'argento delle sponde. lungo le rive esplodono il verde acceso dei campi d'orzo e il giallo e viola dei fiori e tutto intorno risplendono immacolate le fortezze di roccia e i picchi innevati del pir panjal e dell'himalaya. ci addentriamo dolcemente, e ai 20 all'ora, nella surrealtà di questo panorama sublime, incappando lungo la strada in una manciata di villaggi sonnolenti, che galleggiano fuori dalle leggi dal tempo e dallo spazio come le si conosce altrove, fitti di bianchissime casette tradizionali, con finestre azzurro cielo incorniciate di nero, e bassi muri di pietra a delimitare gli appezzamenti dove incredibilmente i contadini coltivano patate, piselli, fagioli e cipolle a oltre 3500 m d'altezza. 


infine, attraverso il nulla densamente poetico che spazia tra un villaggio e l'altro, arriviamo a kaza, il capoluogo amministrativo di spiti, poco più che un paesello con un monastero scintillante, il centro vecchio con strette viuzze e casette tipiche, il bazar e la zona nuova con uffici e affini. da kaza faremo un giro lungo la valle, limitandoci al solito alle mete raggiungibili coi mezzi pubblici, per rendere la nostra visita più economica e ecologica possibile. 

fino alla dolce tabo, 47 km più dentro il cuore della valle, lungo la tibet-hindustan highway, ci arriva in questo periodo un solo autobus. in seguito all'alluvione di giugno che ha isolato kinnaur (la valle che da spiti scende verso rekong peo e shimla), fatto cadere una sacco di neve e franare porzioni consistenti di montagna, alcuni tratti di strada sono infatti chiusi e in altri il transito è concesso solo alle jeep. non potendo proseguire oltre ci fermiamo qui, niente affatto delusi perchè tabo è un piccolo gioiello: è incastonata dove la valle si restringe un po', racchiusa da montagne amaranto striate di nero-bluastro, in posizione lievemente rialzata lungo le sponde del fiume e circondata da campi coltivati e frutteti. un'appuntita vetta innevata marca il confine india-tibet e fa da sfondo più che mai fotogenico alla sagoma del vecchio gompa che sorge al centro del villaggio. importante centro di studi fondato dal grande traduttore lotsawa rinchen tsangpo, il tabo gompa è un esempio splendido e ben conservato dell'architettura locale del X secolo, costruito in mattoni di fango, con una sala di preghiera meravigliosamente affrescata e decorata da un'incantevole teoria di statue lungo tutto il perimetro interno. intorno al monastero piccole viette tortuose fiancheggiate da mura di pietra sono attraversate da sottili rivoli d'acqua, incanalata dal fiume per irrigare le colture, e ad ogni angolo che giriamo il panorama ci pare quello tipico di un villaggio del deserto iraniano o della cappadocia.




da tabo facciamo dietro-front e torniamo a kaza, dove aspettiamo la bellezza di 6h la partenza dell'unico bus quotidiano che copra i 20km fino a kibber, un villaggio incredibile, appollaiato sulla cima di un arido crinale, a 4250 m d'altezza, di una bellezza a dir poco surreale e immerso in paesaggi mozzafiato. lungo le vie polverose sferzate dal vento si incontrano bianche casette meravigliose, tra cui vagabondano yak, capre, mucche, asini, contadini, pastori, bimbi sorridenti con le guanciotte rosse e nonnetti di una leggiadria che scioglie il cuore. 

sopra i tetti piatti cosparsi di paglia e fasci di legna brilla quasi sempre il sole e il cielo è splendidamente blu e, anche se tutto quello che abbiamo intorno è quasi troppo bello per crederci, non si può ignorare quanto sia dura la vita in questa terra sublime ma difficile, in cui sopravvivere di stagione in stagione significa assecondare i ritmi della natura, strappare al deserto lembi di terra da coltivare a suon di canali d'irrigazione, insomma condurre un'esistenza dal fascino d'altri tempi, in cui le comodità sono più che esigue e gli inverni lunghi e polari e si riesce appena a godere della calda estate che già tocca seccare il cibo e a fare scorta per affrontare il gelo. 

ci fermiamo un paio di giorni così possiamo gironzolare per il villaggio e anche fare una passeggiata, che ci delizia con viste mozzafiato sulla valle, sulla gola del fiume, sulle montagne innevate e sulla piana coltivata multicolore, fino a kyi, un altro villaggetto delizioso poco meno di 10km più in basso. sulla collina spoglia che troneggia sopra le case si trova il kyi gompa, il più grande monastero buddhista di spiti (XI secolo), che emerge fotogenicamente dalla roccia grigio-ocra e si staglia contro il solito cielo blu. diamo un'occhiata alla collezione di thangka e antichi manoscritti, poi sediamo ad ammirare la vista incantata sulla valle sottostante, insieme a un'orda chiassosa di bimbi sorridenti in gita scolastica, coi quali condividiamo un sorso di chay e qualche morso di tu cake (una torta tibetana), e quindi osserviamo un gruppetto di monaci giocare una partita di pallavolo ad alta quota. sulla strada del ritorno dalle finestrelle del villaggio tenere vecchiette rugose ci salvano dall'evaporazione offrendoci provvidenziali litri di acqua fresca.




da kibber ce ne torniamo ancora estasiati verso kaza e l'indomani lasciamo spiti, non senza un lieve rimpianto. l'autobus parte alle 6 passate alla volta di gramphu sotto un cielo limpidissimo e avanza tra il fiume e le montagne di roccia grigiastra per poi sterzare verso ovest, zigzagando tra prati punteggiati delle sagome colorate di cavalli e yak che pascolano tra mille fiori variopinti. 

incollati al finestrino, volgiamo lo sguardo indietro, indulgendo nella piacevole sensazione che ci accompagna, come se la nostra voglia di viaggiare si fosse rinnovata, abbeverandosi presso chissà quale magica fonte, grazie al fascino immortale di quello che è senza dubbio uno dei posti più belli sulla faccia del nostro pianeta. una terra di frontiera, dove il turismo è penetrato solo a partire dal 1993 e che quindi prima di allora galleggiava sospesa nella sua poesia senza tempo. un microcosmo fragile in cui bisogna addentrarsi con passo felpato e consapevole, in punta dei piedi, facendo attenzione a non alterare l'equilibrio delicato che lo mantiene in bilico tra due mondi, e soprattutto partirsene avendo cura di non lasciare dietro di sé tracce troppo evidenti del proprio passaggio, tentando di esplorarlo per quanto possibile a impatto zero.



per gli spazi infiniti tra queste montagne sembra di vagare sospinti dallo stesso alito invisibile che anima pietre, fiori e ruscelli, d'udire il respiro della terra muovere nel silenzio sovrumano che li attraversa, di avvertire una forza vibrante emergere da sotto i piedi e avvolgerci in ogni direzione.
e poi la maestà del kunzum là ci strappa all'abbraccio di spiti e ci catapulta di nuovo a lahaul.

LAHAUL e BAGHA – da spiti al ladakh

col bel tempo i prati brulli del kunzum la sono un posto in prima fila per ammirare lo spettacolo singolare dei tre maestosi ghiacciai illuminati dalla luce del sole. quindi la strada scende serpeggiando lungo tornanti ghiaiosi e subito il paesaggio muta drasticamente: niente più verde, solo un desolato ma sublime scenario lunare, con montagne grigio perla, vette innevate e ghiacciai millenari a incorniciare il letto del chandra river. 

passiamo il bivio per il chandratal e ci fermiamo a battal, dove due nonnetti adorabili servono dhal rice, uova sode, paratha e chay nel solito dhaba d'alta quota, sperduto in mezzo a km e km di nulla immacolato. di là la strada prosegue intersecando i torrenti che tributano al chandra, guadando ruscelli che colano dalle montagne, e che il disgelo ha ingrossato per bene, e a volte percorrendo il letto vero e proprio del fiume. poi inizia a comparire qualche filo d'erba tra i sassi, quindi una distesa di prati costellati di giganteschi massi surreali e cascate sempre più copiose, che scendono dai fianchi muschiati dei monti. 



a chhatru un cartello ci informa che siamo a 3535 mt e che la popolazione locale conta ben 120 anime, anche se intorno non si vede altro che una manciata di dabha, di cui spesso solo uno è aperto, e manco una casa degna di tale nome. chhatru comunque costituisce una tappa obbligata di rifocillamento per tutti i veicoli che transitano qui in direzione di spiti, prima di addentrarsi ulteriormente nell'immensità silenziosa delle valli himalayane. nella direzione opposta lahaul si tinge invece sempre più di verde fino a che si arriva a gramphu, un incrocio con due dhaba e nulla più proprio sotto il rohtang la, dove scendiamo per un the e attendiamo l'autobus delle 17 in arrivo da kullu. la statale da qui in avanti segue il corso del bagha river e arriva, una cinquantina di km e 4h (!) dopo, a keylong, la capitale del distretto, una piccola città divenuta popolare quale sosta notturna per gli autobus diretti che fanno la spola tra leh e manali, in cui si può piacevolmente passare qualche giorno a studiare l'abbigliamento originale delle donne locali, vagare per il piccolo bazar e gustarsi l'atmosfera intrigante da terra di confine.


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