INDIA³
21
luglio – 8 agosto 2013: ladakh
DA
KEYLONG A LEH
nella
tiepida alba ambrata, che indora un cielo minacciosamente cupo,
l'autobus delle 5 di mattina diretto a leh parte con inusitata
puntualità dalla stazione di keylong. sale prima lungo il margine
settentrionale della bagha valley, attraverso prati smeraldini pur se
già piuttosto brulli e ghiaiosi, fino a
darcha,
l'ultimo insediamento permanente prima della vastità infinita delle
vallate himalayane. una fila di dhaba appena aperti ci accoglie per
la nostra seconda colazione, quella delle 6, mentre il posto di
polizia annota più o meno scrupolosamente i dati dei passaporti di
tutti i passeggeri non indiani. da darcha poi si punta al passo, il
primo dei tre che ci separano dal leh, il baralacha
la
a 4950 m. lo valichiamo proprio mentre i primi lembi d'azzurro
squarciano il fitto manto plumbeo sopra le nostre teste e un pallido
sole si posa sull'ultima neve che ancora stria di bianco le maestose
fortezze di pietra tutto intorno.
poco
oltre incontriamo bharatpur
city
(di cui in realtà tutto si può dire tranne che sia una city),
il primo di una lunga serie di agglomerati stagionali di dhaba,
attivi solo in estate quando la strada è praticabile, che se stanno
enigmatici nel bel mezzo di un nulla quanto mai lunare ad attendere i
viaggiatori affamati in transito lungo la leh-manali. di tanto in
tanto lampi di rosso infuocato o giallo ocra accendono d'improvviso
la roccia cinerea, saturando le mille sfumature grigiastre di questa
pietra quasi extraterrestre. ben presto il cielo si fa del blu più
terso che c'è, mentre fuori dal finestrino sfila sarchu,
con la sua manciata di tende, da cui la statale
inizia di nuovo a salire, fino a giungere ad una serie di curve
tortuose, serpeggianti lungo il fianco di deliziose montagne dorate,
a strapiombo sulla ripida gola del fiume, con panoramica da cartolina
sulle valli colorate in lontananza. un bijoux. l'autobus quindi
affronta agilmente (qui la strada è asfaltata e piuttosto ampia per
quasi tutto il percorso fino a leh; il potere del tourism business!)
i gatha loops, altri 21 tornanti che scalano i 5060m del lachlung
la.
quando scendiamo dal passo è ora di pranzo e facciamo tappa a pang,
l'ultimo ammasso di dhaba prima che il nostro autobus si spinga
ulteriormente nel cuore dell'himalaya. e poi è il nulla, un nulla
sublime che toglie il fiato e che si dipana immacolato attraverso
praterie dal sapore di mongolia, vallate da cineteca e favolosi
canyon intarsiati, fino al taglang
la,
il più alto dei tre passi, a 5328m, (nonché tra le strade carrabili
più alte del mondo; la prima di queste attraversa il khardung la a
nord di leh in direzione della nubra valley – 5602 m, anche se
l'altezza effettiva e il conseguente primato sono oggetto di
controversie). pioviggina, il freddo è pungente e la desolazione del
paesaggio memorabile. altrettanto non si può dire delle condizioni
di lavoro precarie e massacranti degli operai addetti alla
manutenzione del manto stradale, costretti a dormire in tende
posticce allestite in campi improbabili nel freddo polare della notte
a 5000 m. tutti indiani provenienti dal bihar o da qualsiasi altra
delle zone più povere e disagiate del paese, oppure nepalesi
strappati alle loro case con la prospettiva di guadagnare una
manciata di rupie in più che in patria, ma pur sempre uno stipendio
infimo. noi passiamo sul gov bus e loro sorridono e salutano. chissà
se i turisti che se la spassano bellamente a bordo di jeep nuove
fiammanti, con tanto di AC e autista privato, hanno pensato per un
solo momento alle migliaia di rupie che hanno sganciato per il taxi e
al fatto che i loro fratelli indonepalesi devono sgobbare più di un
mese per guadagnarsele.
oltre
il passo si apre la valle dell'indo, o meglio una laterale, e
l'autobus transita veloce per rumtse,
lato,
miru
e gya,
una serie di bei villaggi ladakhi di basse case bianche avvolte
intorno ad antichi stupa in pietra, mentre la vallata si fa tanto
stretta da sembrare quasi un canyon di petra e il torrentello azzurro
scava il suo corso tra le montagne rossastre. quindi a upshi
arriviamo finalmente lungo le rive dell'indo e la bella piana del
fiume si dispiega dinnanzi ai nostri occhi, splendente del verde
delle sue sponde alberate, fitte di pioppi, betulle, albicocchi,
olivelli e salici. proseguiamo così fino a karu, un paesello con più
caserme che case, i cui dintorni sono una distesa infinita di campi
di addestramento murati, alloggi per le truppe, aree di servizio,
magazzini e strutture logistiche, insomma un'orrida sarabanda di
scempi che da noi si chiamano ecomostri, il cui grigiume inquina
inesorabilmente la bellezza e la purezza del paesaggio. la loro
presenza, massiccia e invadente dovunque occhio può vedere o quasi
(sono pochi i luoghi della valle liberi da installazioni militari),
ben illustrano l'ansia da conflitto e la paranoia da nemico alle
porte che attanaglia certi settori della società indiana, alle prese
con la costante consapevolezza (??) di essere circondati su ogni lato
dagli antagonisti di sempre (su tutti pakistan e cina).
insomma la
follia pura per cui l'india ha messo insieme un esercito tra i più
grandi del globo e sprecato risorse infinite in un inarrestabile
delirio guerrafondaio, quando investendo opportunamente le stesse
cifre sarebbe stata in grado di risanare mezzo paese. e invece eccoli
ancora oggi, oltre 60 anni dopo, a cavalcare le stesse idiozie
nazionaliste e a farsi sospingere dagli stessi venti d'odio settario
che hanno condotto alla tragica divisione del paese nel '47. tutto
ciò senza che nessuno sembri avvedersi di come la partition sia in
realtà l'ultimo colpo di coda del colonialismo inglese, più che il
risultato delle ferite insanabili prodotte dalle diversità
intrinseche della società indiana, le cui anime differenti avevano
sino ad allora convissuto, talvolta in modo turbolento d'accordo, ma
convissuto. i suoi mille volti sono in ultima analisi proprio quello
che rende l'india l'universo variopinto, multietnico e
multiconfessionale, la cassaforte di umanità, che tanto piace a noi.
e quindi la corona inglese, indispettita e impotente di fronte
all'eroismo umano di gandhi e di quanti l'anno seguito, ha pensato
bene di fomentare e appoggiare le spinte indipendentistiche interne
per lasciare un bel regalo di indipendenza agli ex-sudditi esotici di
sua maestà la regina, causando lo smembramento della neonata nazione
indiana, la conseguente disastrosa carneficina e l'odio
etnico-religioso cui tanto il mahatma si era opposto. pace alla sua
grande anima.
su
queste note l'autobus arriva presto a destinazione e notiamo con
piacere come pure leh sia circondata da basi militari invasivissime.
fa sorridere pensare a come il ladakh sia da un pezzo una delle
regioni più visitate del subcontinente, quando, e ce l'hanno
confermato i locali, qui manco avrebbero costruito strade e aeroporto
non fosse per l'importanza militare strategica della zona.
benvenuti
in ladakh, terra di gompa.
sì, e
di caserme.
LEH
esercito
a parte, la valle dell'indo è un miracolo dell'integrazione
uomo-natura, una lingua di terra assolata e arida, circondata da
ghiacciai millenari e dalle solite montagne di mille colori,
strappata dalla sabbia del deserto e resa verde e fertile grazie ad
un'opera di canalizzazione dell'acqua che ha del prodigioso. leh
è incastrata in un tratto della spianata racchiuso tra il fiume e le
montagne, dove la valle dell'indo sale verso il khardung la.
la
sagoma del palazzo e il profilo aguzzo dello tsemo gompa sono il
marchio distintivo che la caratterizza da lontano, mentre poco sotto
si dipana la matassa aggrovigliata della città vecchia, coi suoi
stretti vicoli lastricati su cui si affacciano casette di fango e
pietra, che digradano fino alla via principale del main bazar e alla
zona delle moschee e delle botteghe del pane. c'è una bella
atmosfera per le vie del borgo antico, anche se in tutta onestà, con
le frotte di turisti che assalgono il ladakh ogni anno, uno potrebbe,
e a ragione, aspettarsi un livello di cura e conservazione di molto
superiore, perchè davvero la parte storica della città langue in
uno stato pietoso. a quanto sembra è in corso un progetto di
recupero e restauro del palazzo e del quartiere sottostante, ma i
tempi di realizzazione si prevedono nella più rosea delle
prospettive biblici e nel frattempo ad accogliere il visitatore ci
pensano invitanti cumuli di macerie, il costante "sabor" di latrina
che, per dirla con un francesismo, soffonde aromi di merda e piscio
in ogni direzione, e le onnipresenti montagne di rifiuti (va detto
che siamo in india da un bel po' e ne abbiamo viste di tutti i
colori, ma qui abbiamo toccato il fondo del trash per quanto
riguarda una zona di grande interesse turistico). uno spettacolo a
dir poco deprimente. dal lerciume dei vicoli maleodoranti si ascende
in un baleno al leh palace, attraverso pittoresche scalette in pietra
che raggiungono prima tre vecchi gompa nelle immediate vicinanze
dell'ingresso della residenza reale. ci garberebbe pure visitarli
questi monasteri, non fosse che il tutto è in un triste stato di
abbandono: l'interno del soma gompa è pesantemente diroccato e la
famiglia di custodi pare non trovare niente di meglio da fare che
stendere i panni ad asciugare tra le colonne lignee vecchie di
secoli. di immondizia non c'è mai penuria e questi, più che
prendersi cura del sito, sembra quasi si impegnino a insozzarlo
ulteriormente. poi però per farti aprire la porta della sala di
preghiera devi comunque sganciare 30rs. allora facciamo dietrofront,
sperando in una sorte migliore dalle parti del chandazik gompa poco
lontano. macchè. questo sembra addirittura messo peggio ed è pure
chiuso. alla biglietteria, di fronte alla nostra richiesta di
chiarimenti, manco sanno darci una motivazione. mah. proviamo pure
col chamba lakhang, anche se oramai abbiamo capito l'antifona e ci
aspettiamo il peggio, e infatti lo troviamo manco a dirlo decadente e
sigillato. possiamo dire, senza tema di smentita, che si tratta del
complesso monumentale peggio conservato su cui abbiamo messo gli
occhi nel nostro lungo soggiorno indiano. per non parlare delle sale
interne del palazzo.
la versione ufficiale delle autorità e delle
guide millanta l'apertura del suddetto cantiere di restauro, e in
effetti all'interno scorgiamo traccie di lavori in corso, ma, anche
volendo bersela, le fasi di lavorazione sono a dir poco in alto mare
e ce ne sarebbe da ridire per un secolo almeno. ecco. peccato!,
perchè in realtà leh avrebbe tutte le carte in regola per essere
una destinazione culturale di tutto rispetto, col suo palazzo e i
suoi gompa. con ogni probabilità al governo indiano il ladakh sta a
cuore più per la sua posizione strategica e per il suo potenziale
militare che per la cultura e il patrimonio e, a quanto sembra,
nemmeno il dalai lama e le autorità buddhiste sembrano dissanguarsi
per evitare che cotanta beltà sia lasciata a morire tra i rifiuti e
gli olezzi da vespasiano.
dalla
parte opposta del crinale almeno il namgyal stupa e guru lhakhang
shrine vantano un'ottima location, che regala apprezzabili vedute a
270 gradi sulla città e i dintorni dall'alto di un bel picco
roccioso e, sopra il palazzo, lo tsemo gompa troneggia su tutto lo
spazio urbano.
intorno
alle vie centrali di leh bianche casette basse, circondate da mura di
pietra a delimitare orti e giardini verde smeraldo, si susseguono
lungo viali alberati attraversati da piccoli rivoli di acqua. nei
paraggi poi si incontrano lo shanti stupa, la pagoda della pace
giapponese, un edificio nuovo e poco impressionante, da cui però si
ammira un bel panorama su tutta la città e la vallata, quindi il cubo del
nazer latho, il bizzarro santuario della dea protettrice di leh,
adagiato come uno scrigno bianco sulla cima di una montagnola con
picchi innevati sullo sfondo e un'invidiabile cornice di ripetitori
e antenne, e infine diversi altri stupa e gompa disseminati tra le
stradine periferiche.
è
già passata una settimana, un'idea ce la siamo fatta e tanto basta
per poter dire di leh che, anche se rimane rilassante e piacevole, è
un po' troppo turistica per i nostri gusti, piena com'è di negozi di
souvenir, agenzie, ristoranti e mercatini dei rifugiati tibetani.
senza
dubbio l'aspetto più intrigante del ladakh è la convivenza,
l'incontro, delle sue anime diverse. anche se la peculiarità
culturale della zona è certo la tradizione buddhista, per cui sono
agilmente rintracciabili similitudini col vicino tibet (o almeno così
dicono, perchè noi mica ci siamo mai stati), la prossimità col kashmir
musulmano dà luogo ad un'interessante e forse inedita commistione di
buddhismo e islam, di facce dagli occhi a mandorla e dai tratti
mediorientali, di tradizione culinaria buddhista-himlayana e
mediorientale-afghano-pakistano-iraniana. nell'aria risuonano i
mantra buddhisti, intonati dai monaci durante le puje quotidiane dei
monasteri, ma s'ode anche il canto dei muezzin che salmodiano dai
minareti.
in
fondo perciò niente di male se ne può dire, ma davvero non capiamo
un'affluenza tanto consistente di visitatori, considerando che spiti
ci ha incantato molto molto di più.
esageriamo?
magari basta uscire da leh per godersi quello che un ladakh più
autentico ha da offrire.
ed è
quello che facciamo.
LA
VALLE DELL'INDO da STAKNA a LAMAYURU
a
fare da contraltare al pandemonio di basi dell'esercito ci pensano
per fortuna i meravigliosi paesaggi che regala la valle, plasmati a
meraviglia dalla luce che disegna sfumature misteriose sulla
superficie rugosa delle montagne. da leh muoviamo prima verso sud e
ci fermiamo a shey,
che fu la sede dei reali del ladakh dopo leh. oggi il palazzo,
costruito nel 1650 da re deldan namgyal, ospita ancora al suo interno
il namgyal chorten, lo stupa della vittoria, più grande del ladakh,
e nel dukhang (sala di preghiera) una statua del buddha shakyamuni
seduto alta 7,5m.
uno
tra i più bei gompa della valle per la ricchezza del complesso
architettonico è senz'altro quello di thiksey,
che raggiungiamo con un'agevole passeggiata di 5km da shey. sorge
sulla cima di un rilievo, da cui si domina un bel tratto della valle
e sulle cui pendici è disposta una serie armoniosa di edifici tradizionali, tra
cui si insinuano viuzze strette e panoramiche che scendono fino alle strade polverose del villaggio omonimo,
gravitanti intorno al gompa. oltre che delizioso e fotogenico, è però
anche tra i più turistici e perciò poco autentico e un tantino
commercialoide. bastino i prezzi del ristorante, la jeep iperlussuosa
con cui vediamo arrivare alcuni dei monaci, i quali sfoggiano sempre
e comunque smart phone e portatili nuovi di zecca, e gli operai
nepalesi, tra cui anche bambini, alle prese coi lavori di
manutenzione e restauro di alcuni degli edifici, a rendere l'idea di
quello che non ci è piaciuto per niente. le sale principali del
complesso ospitano affreschi interessanti e una statua a tre piani di
maytreya con una corona dagli intarsi pregiati. poi è possibile
assistere alla puja mattutina o pomeridiana, pur se la si deve
condividere con decine e decine di gruppi in visita, scorrazzati da
uno all'altro dei gompa principali della valle da colonne di jeep a
noleggio. infine c'è anche un piccolo museo che raccoglie una
collezione di manufatti e thangkha tibetani.
all'ingresso alcuni
pannelli esplicativi lamentano l'enorme problema delle infiltrazioni
di acqua piovana
dal tetto che, nella stragrande maggioranza dei monasteri (e per
fortuna in ladakh piove poco), erodono gli strati di colore,
rovinando irrimediabilmente gli affreschi, e illustrano anche gli
interventi conservativi di alcune equipes europee. peccato che poi
nel gokhang assistiamo allo spettacolo pietoso offerto da due giovani
monaci, forse un po' sprovveduti per carità, che durante la puja
improvvisano giochi d'acqua con un secchiello, schizzando tutto un
tratto di parete affrescata. bella cultura di conservazione. per
fortuna ci pensano i restauratori europei a riparare agratis i danni
causati dal water leaking! vabbè l'impermanenza e tutto il resto, ma
se questa è la tutela del patrimonio.. anche qui
comunque 30rs a cranio se le intascano, manco a dirlo. e intanto un
tubo in giardino continua inspiegabilmente a vomitare a vuoto litri e
litri di acqua per tutta la notte. alla faccia del deserto e della
salvaguardia dell'ambiente!
poi
c'è hemis. anche se non ci intriga per niente il fatto che sia il più visitato
e turistico tra i monasteri della valle, valutiamo l'idea di farci un giro
lo stesso, anche se con qualche riserva in merito all'esorbitante
tariffa di ingresso di ben 100rs a cranio. d'altronde questa è la
sede della scuola kagyu drukpa, con tanto di trono del XII gyalwang
drukpa,
il lama occhialuto il cui volto serafico e inquietantemente
sorridente campeggia sui cruscotti delle macchine di due terzi dei
ladakhi. ecco, quindi P-A-G-A-R-E. a noi sembra sempre fuori luogo che
sia previsto un biglietto per visitare un sito religioso, dovunque
nel mondo, e abbiamo il sospetto che si tratti di una trappola per turisti. quando arriviamo a karu da stakna ci dicono che
l'unico bus che sale fino al monastero è passato da poco, perciò
non ci resta che chiedere ai minivan collettivi. per fare i 6km poco
più fino a hemis gli autisti vogliono la bellezza di 250rs sola andata e
altrettanti al ritorno! ora, passi il costo della benzina che quassù
è in effetti proibitivo, ma se questo è uno dei luoghi più
visitati del ladakh e se, come dicono, le istituzioni e in primis i
cittadini tengono davvero così tanto alla protezione del fragile
ecosistema della regione, perchè mai c'è solo un autobus al giorno?
siamo sicuri che qui si stia davvero promuovendo questo famigerato
ecoturismo con cui sembrano tutti pronti a riempirsi la bocca? la
stragrande maggioranza dei turisti gira la valle con una macchina con
autista privato, (ne sfrecciano a centinaia a destra e a manca in
barba al fatto che il carburante costi un occhio e arrivi da chissà
dove), che di fatto inquina più dei mezzi pubblici e, come se non
bastasse, è quasi sempre semivuota! ecco servito l'ecoturismo! e addio hemis, che ci sono già girate le palle!
stakna
- il
piccolo gompa di stakna si erge solitario sulla sponda opposta del
fiume, cui si accede con un piccolo e stretto ponte. se ne sta
arroccato al sole in mezzo al nulla, è poco visitato e gli affreschi
sono stati ridipinti di recente, ma l'atmosfera è comunque piacevole
perchè qua di turisti non c'è manco l'ombra!
poco
lontano sorge il villaggio di matho,
che
pensiamo bene di raggiungere a
piedi da stakna sotto il sole più cocente e non contenti a piedi
torniamo pure. non è male, ma di certo niente di esaltante. degni di
nota i soliti restauri per nulla conservativi,
che fanno tabula rasa di tutto quanto era rimasto delle pitture
originali. per il resto più che altro porte chiuse e nessuno in giro
per aprirle. e poi la solita torre dei telefoni, perchè non sia mai
che i monaci non possano usare il cellulare!
la
colonia tibetana di choglamsar,
appena fuori leh, ospita un paio di centri di meditazione e studio e
un gompa. noi ci fermiamo qui per visitare stock che sta dall'altra
parte del fiume all'ombra dello stok kangri (6153 m), ma poi
scopriamo che il giorno dopo il nostro arrivo è prevista la visita
del dalai lama, per una serie di conferenze e convegni, e che il
comitato di accoglienza ha organizzato un benvenuto degno del kundun.
centinaia di persone in sgargianti costumi tradizionali tibetani e
ladakhi si mettono in fila verso le 8 e mezza e aspettano fino alle 11
che passi l'auto del dalai lama per cogliere il fugace cenno della
sua mano benedicente e un fotogramma dei suoi occhiali da sole dietro
il vetro oscurato. e poi finisce tutto, almeno lungo le strade.
non
che non ce lo aspettassimo, ma siamo comunque perplessi, almeno
quanto lo saremmo di fonte all'omologa passerella papale: centinai di
vecchietti tibetani se ne stanno sotto il sole per ore e ore per
vederlo sfilare un secondo in macchina. non
importa,
ci dicono, per
noi vedere il dalai lama importa più di ogni altra cosa. poche ore
di attesa sono nulla, aspetteremmo anche giorni.
certo, siamo di fronte a quello che per loro è il fulcro
dell'identità nazionale e la guida spirituale e religiosa, il buddha
vivente, l'incarnazione terrestre di avalokiteshvara etc etc, ma a
noi sembrano comunque tutti preda di un eccessivo quanto dannoso
culto della personalità. pur se la sfilata in costumi tradizionali è
stata un'esperienza grandiosa, rimaniamo comunque dubbiosi,
soprattutto perchè la maggior parte dei fedeli accorsi sono donne,
che sembrano inspiegabilmente cogliere solo la dimensione positiva
del loro culto e non chiedersi ad esempio perchè i lama di alto
lignaggio siano sempre e solo uomini. davvero il buddhismo,
soprattutto il tantrismo tibetano come si dice, garantisce la parità
dei sessi e rivaluta il ruolo della donna nella società e nella vita
spirituale rispetto alle altre religioni?? a noi sembra piuttosto che
sottese a tutto questo ci siano le solite dinamiche di potere trite e
ritrite che il buddhismo in tutte le sue forme condivide con gli
altri sistemi religiosi, anche se i suoi seguaci lo negano tanto
animatamente.
stok
- nell'arsura di una giornata bollente come non mai, che quasi ci
pare di vedere miraggi sahariani, attraversiamo la piana a piedi per
qualche km in direzione di stock, fino a che un gentilissimo
camionista kashmiro ci dà un passaggio e ci salva dall'essiccamento.
il piccolo villaggio è delizioso, con le solite stradine
fiancheggiate da mura di pietra che contornano campi d'orzo, orti
rigogliosi e prati di fiori gialli. il palazzo reale, ultima
residenza dei reali del ladakh, è stato questa volta restaurato in
maniera più che soddisfacente, almeno all'esterno.
spituk
- di
là dell'aeroporto da leh, praticamente inglobato in un trionfo
disgustoso di caserme, il gompa di spituk è un monastero gelugpa del
XII secolo. anche qui però è praticamente tutto chiuso, a parte il
santuario sulla cima, dove le donne locali pregano vajrabhairava perchè conceda loro un figlio. militarizzazione
incalzante a parte, è interessante.
phyang
è un adorabile villaggio nel bel mezzo di una vallata verdeggiante
dominata dal gompa omonimo che la sorveglia dall'alto di un rilievo.
il monastero è stato rinnovato, ma permangono porzioni più vecchie
che risalgono al nucleo originale del XVI secolo. stradine
ombreggiate raggiungono il limite superiore della valle, dove sorge
una deliziosa guest house a conduzione familiare italo-ladakhi in
splendida posizione panoramica. ciao cristina!
basgo
è un altro bel villaggio, con casette di mattoni di fango e campi,
che abbiamo la fortuna di visitare nella luce sfumata del mattino.
saliamo verso il complesso che ospita il chamba
gompa,
guarda caso pure questo attualmente chiuso per lavori di restauro, il
serzung temple e tutto intorno rovine derelitte della cittadella
fortificata. sarà anche patrimonio dell'unesco, ma cade tutto a
pezzi e i soliti metodi barbari di restauro danno poche garanzie di
sicurezza. i lavori sembrano affidati a personale non specializzato,
ci sono addirittura bambini che trasportano i carichi di sabbia, e
per liberare il tetto dalle tonnellate di materiale usato per sistemarlo, gli operai sollevano un polverone pazzesco che
inevitabilmente finisce per entrare nelle sale affrescate! per
fortuna il piccolo santuario di maytreya è delizioso, con antiche e
interessanti pitture dai classici soggetti tantrici.
insomma
in giro per il ladakh, molto più che a spiti, ci siamo imbattuti nel
degrado più totale del patrimonio storico-architettonico, quasi
ovunque in preoccupante stato di decadenza e incuria. e pensare che
in tibet si grida di continuo alla distruzione dell'immensa ricchezza custodita nei monasteri vajrayana da parte dei cinesi, arrivando
addirittura a ipotizzare il genocidio culturale. qui invece, dove
nessun invasore occupante limita le operazioni di tutela, è tutto
lasciato a marcire. evidentemente ciò che importa è il business, i
cari e vecchi dollars,
argomenterebbe la voce del cinismo. peccato che raramente sbagli.
likir è decisamente uno dei gompa più belli che abbiamo visto, in
posizione splendida a 5km dalla statale leh-kargil, imbucato in cima
a una vallata verdeggiante, con il primo nucleo del monastero datato 1051.
ammiriamo le pitture molto interessanti della sala principale e
nel gokhang incappiamo in una puja in grande stile, con tanto di
copricapi e abiti tradizionali e accompagnamento di piatti, tromboni
e damaru (tamburi rituali). solo che invece del classico chay i
monaci si sparano “bozzoni” da 2lt di pepsi e montain dew. eccola
la spiritualità in salsa global!
alchi
- come
al solito noi becchiamo l'orario di calma piatta e non c'è un bus
che da saspol raggiunga la pur vicina alchi. fa decisamente troppo
caldo per farsela a piedi con gli zaini sotto il sole cocente di
mezzogiorno e così ci toccherebbe aspettare chissà quanto, non
fosse per il provvidenziale gentilissimo intervento di un funzionario
del governo, un delizioso e loquace ometto sikh, che ci fa salire a
bordo della sua auto di servizio e ci accompagna fino alle porte del
choskor complex... grazie! alchi è dopo leh la destinazione più
gettonata della valle, però stavolta il grande afflusso di turisti è
giustificato, perchè davvero le pitture murali dei templi sono le
più belle che abbiamo visto in ladakh. finalmente anche dal punto di
vista artistico qualcosa che sia degno della fama della regione e
della bellezza del suo paesaggio. nel complesso monastico di choskor,
fondato nel X secolo dal grande traduttore da rinchen zangpo, ci sono
4 templi cui si accede tramite 4 minuscole porte. dentro ciascuno di
essi si schiude un mondo incantevole, soprattutto nel sumtsek temple,
che è completamente ricoperto di immagini di buddha in miniatura su
sfondo blu. l'atmosfera suggestiva ci ricorda le sale dei templi
egizi e la fattura raffinata delle decorazioni restituisce un effetto
complessivamente splendido. anche gli altri tre, pur se meno
spettacolari, sono altrettanto interessanti. insomma alchi merita di
certo una visita.
lamayuru
- da
khalsi non ci sono bus e allora ci facciamo accompagnare da 3
camionisti kashmiri, attraverso un paesaggio lunare a dir poco
strabiliante. welcome to moonland! qui la valle del fiume ha scavato
canyon stretti e spettacolari lungo le pareti rocciose giallo ocra o
grigio perla delle montagne e castelli di roccia striati di nero degni della
cappadocia spuntano un po' dovunque. e poi,
dietro una curva, appare improvvisamente lamayuru, con le sue
stradine fitte di casette tradizionali e scalette lastricate che si
arrampicano verso la cima di un picco, dove il gompa più antico del
ladakh se ne sta arroccato a dominare il villaggio. all'interno è
visibile la grotta dove meditò naropa, il mahasiddha tantrico
allievo di tilopa. carino.
in
conclusione sì, forse basta uscire da leh per godersi un ladakh più autentico, un tantino più puro, anche se purtroppo la lunga mano
del turismo ha già contaminato in maniera irreversibile la purezza e l'autenticità originali. perfino i locali (parliamo
con un ragazzo che vive e lavora da 10 anni negli usa ed è tornato
per la prima volta al suo villaggio quest'anno) lamentano il fatto
che la maggioranza della popolazione oramai non viaggia più coi
mezzi pubblici, preferendo la comodità della propria auto, che il
livello superiore di benessere ha causato l'abbandono di una porzione
consistente delle terre da coltivare o che un sacco di gente ha
smesso di dedicarsi all'agricoltura personalmente e ha optato per
assumere lavoratori stagionali (sottopagati) da nepal e bihar (gli
stessi che dormono sulle tende più improbabili lungo la statale da
manali a leh e riparano le strade a 5000 mt d'altezza o che lavorano
nei cantieri di restauro dei monasteri), così le tecniche
tradizionali di coltivazione, le colture tipiche e l'attaccamento
alla terra sono invariabilmente perduti, che ora tutti o quasi
preferiscono acquistare la frutta e la verdura proveniente dai
mercati di delhi, molto costosa e per giunta piena zeppa di
pesticidi, a scapito del consumo dei loro stessi prodotti, biologici
e a km zero, perchè si fanno abbindolare dalle fregnacce riguardo il
sapore migliore e la maggiore qualità (siamo al ridicolo), che il
trend imperante è quello di costruire strade su strade e alberghi e
agenzie e negozi e pompe di benzina, che in generale l'obiettivo da
raggiungere per tutti o quasi resta una vita conforme al modello
occidentale, anche se questo significa la compromissione e
l'abbandonando delle proprie tradizioni e la perdita della propria
identità culturale. parola di ladakhi.
certo
che ognuno può ambire a una vita meno faticosa, a qualche comodità
in più, ma rinnegare le proprie radici porta a quello stesso sradicamento
culturale che vive l'occidente globalizzato. anche se in questo senso tutto il
mondo è paese, almeno nell'india rurale (in odisha e west bengal per
esempio, e in netta contrapposizione con l'india urbana, moderna,
occidentaloide e ricca) le tracce del passato e dell'identità locale
sono ancora vive e vegete nei vestiti, nelle abitudini, nelle speranze e nello stile di vita della maggioranza della popolazione, giovani compresi. qui in ladakh la metamorfosi invece pare
più veloce e irreversibile. le fasce più povere comunque
continuano a lavorare in condizioni pessime (le donne spaccano pietre
10h al giorno sotto il sole per poche rupie) e a condurre una vita dalla durezza d'altri tempi, ma i monaci non sembrano
lasciarsi turbare da tutto questo, anzi si rinchiudono dentro le loro fortezze e sfoggiano con buddhica serenità il loro più recente acquisto, o regalo, tecnologico all'ultima moda.
a
noi sembra proprio che, nel segno mortifero della globalizzazione, il
vaticano tibetano, che mai è stato innocente, incorrotto e
illuminato, non sfugga nemmeno oggi alle leggi poco francescane che
regolano quello romano.
che
dire? con spiti a nostro parere non c'è partita. ce l'abbiamo nel
cuore.
ci
risiamo, insomma. pare proprio che dovunque il turismo penetri in
proporzioni massicce, ecco, quel posto finisca per marcire
irrimediabilmente. forse. o forse no. e lo diciamo da turisti, cosa
che in fondo, per quanto si possa essere in parte consapevoli, è
giusto ammettere di essere. resta il fatto che a zonzo per certe zone
del ladakh ci è sembrato di raggiungere quasi i livelli di
contradditorietà e immoralità del t0urism business rajasthano.
sì, da
qualche parte, nel silenzio di queste valli, probabilmente ci sono ancora posti dove la naturalezza e lo spirito puro di questa terra non sono
stati corrotti. forse dove serve un permesso? dove si arriva
solo in jeep e quindi costa un occhio? dove non giungono i grandi
flussi dei vacanzieri mainstream?
forse. ma ci è passata la voglia e
quindi ce ne andiamo.