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9 ottobre – 6 novembre 2013
CINA
::terza parte::
3/3

SICHUAN

                  chengdu
d'accordo, se uno proprio vuole vedercelo, qualcosa di interessante si trova in tutte le città del mondo. e in verità non possiamo dire, a proposito della capitale del sichuan, niente di peggio di quanto diremmo di qualsiasi altra megacittà cinese: grattacieli, stradoni ipertrafficati, una cappa costante di smog e polveri sottili, negozi su negozi di brand occidentali, poco pochissimo verde e ancora meno edifici storici. tra le rare reliquie sopravvissute alla grattacielizzazione totale dello spazio urbano c'è il tempio di wenshu, in cui passiamo qualche ora piacevole a chiacchierare con un giovane monaco, il quale vuole, manco a dirlo, andare a studiare il dharma in canada! l'apoteosi della nausea da metropoli ci viene quando mettiamo piede nella walking street, che non è affatto un posto piacevole dove fare una passeggiata, quanto piuttosto un inferno da invasati dello shopping, stracolmo di negozi spiattellati uno accanto all'altro lungo troppe centinaia di metri, circondati di palazzi da vertigine, con gran contorno di fast food stranieri. ci mette davvero paura. per fortuna ci fermiamo solo due giorni e poi fuggiamo. 
la prima idea è quella di spostarci al vicino villaggio di pingle, ma dobbiamo fare i conti con la passione dei cinesi per le demolizioni, che hanno guarda caso raso al suolo la stazione che serve a noi, quella di jinsha, la quale continua comunque a comparire su tutte le mappe cittadine. così quando scendiamo dal bus urbano, e ci mettiamo invano a cercare sta benedetta bus station, non passa molto tempo prima che il sospetto ci sfiori. i soliti gentilissimi passanti accorrono al volo a soccorrerci, ci mimano spassosissimamente la distruzione dell'edificio e ci consigliano di andare a beimen. a questo punto però decidiamo di proseguire direttamente fino a langzhong. un adorabile nonnetto con un sorriso dolcissimo ci accompagna addirittura dall'altra parte dello stradone a mille corsie, solo per spiegare all'autista del bus dove deve farci scendere. che altro dire?


langzhong
dopo lo shock da metropoli (patologia che ci coglie sistematicamente, non importa quanto tempo passiamo in città) ci confortiamo con la beltà di langzhong e delle sue splendide stradine acciottolate. a parte qualche sporadico, e più che legittimo, negozio di souvenir, qui non c'è traccia dell'atmosfera da centovetrine delle altre old town. per le strade si incontra il fermento quotidiano della vita vera di una cittadina non ancora snaturata dal turismo: i vecchi chiacchierano sull'uscio di casa, le donne si lavano i capelli sul marciapiede, i bimbi giocano, le sale da the e da gioco traboccano di avventori ciarlieri, i ristoranti non sono esclusiva dei turisti ma si rivolgono principalmente ai locali.
il lungofiume è un'opzione piacevole per fare due passi e la sera gli edifici sull'altra sponda sono illuminati con giochi di luce colorati. di là del jialing c'è un altro piccolo quartiere storico, questo però del tutto ricostruito e spudoratamente votato al turismo, zeppo com'è di casinò e club esclusivi. sulle colline circostanti sorgono numerosi templi, un museo e un buddha gigante, anche se l'ingresso è ovunque a pagamento.

la via delle taverne tradizionali di langzhong è stracolma di piccoli ristorantini che servono la mian, ovvero spaghetti fatti a mano, preparati all'istante, e sotto gli occhi del cliente che li ha appena ordinati, da quelli che sono dei veri e propri artisti del mestiere, i quali tirano la pasta tra le dita con una maestria impressionante e danno forma alla velocità della luce a porzioni di noodles fini o larghi, piatti o rotondi.

insomma a langzhong ci stiamo proprio bene. la città è carica di un'atmosfera ammaliante, che si avvicina di brutto a quella di weishan. sarà che dalla cima di ciascuna delle due torri cittadine la vista spazia a 360 gradi su un manto di tegole nere, qua e là tinto del verde, del rosso e del giallo degli alberi ancora in fiore, su cui ti aspetteresti da un momento all'altro di veder combattere planando un drappello di guerrieri erranti.

 e poi dormiamo in una cameretta all'interno di una casa a corte, la prima che riusciamo a trovare libera, e che poi scopriamo essere anche la più economica in città, piacevolmente lontana dal pur minimo bordello della via centrale. i due fratelli che gestiscono la guesthouse sono un capolavoro di simpatia e gentilezza. parlano pochissimo inglese e come al solito si servono del traduttore per comunicare con noi, ma sono oltremodo ospitali e ogni sera insistono per offrirci da bere nel giardinetto di casa, perchè, dicono, “di laowai non se vedono molti e siamo troppo contenti di ospitarvi”. ci portano persino sul lungofiume dietro casa per lanciare qualche lanterna, al grido di “good luck for your love” e “love forever!”, per propiziare così “il nostro amore” e un futuro ritorno in cina, sotto gli occhi esperti dell'ometto del negozio di fronte che dispensa consigli. quindi ci sbronziamo tutti insieme allegramente. sono ospitali a tal punto che ci offrono di restare una notte in più gratis. purtroppo dobbiamo rifiutare, perchè abbiamo appena prenotato l'unico treno quotidiano da chongqing a guilin perciò tocca muoverci. resta l'impagabile ricordo di aver chiacchierato per ore senza conoscere una parola delle reciproche lingue, e pure senza l'ausilio di una lingua franca.
grazie mille a jiang lei! ganbei!!

CHONGQING

eccoci di nuovo catapultati nel delirio metropolitano, e che metropoli. chongqing è la città della nebbia. contro il suo cielo perennemente plumbeo, quando non carico di pioggia, si staglia una sequenza sterminata di grattacieli, tra i quali si infiltra il corso del fiume jialing, che poi si immette nello yangtze all'altezza del porto. col suo andirivieni di navi da crociera, che solcano il fiume azzurro in direzione delle tre gole, mercantili dalle proporzioni mastodontiche, chiatte colossali, cataste di container e l'immancabile cornice dei soliti giganti di ferro e cemento, la zona portuale non stonerebbe nel futuro post-catastrofico di qualche manga stile akira e infondo ha un suo fascino. soprattutto quando si passa il tempo ad osservare gli ometti con gli aquiloni e i facchini trasportare, caricare e scaricare merce di ogni tipo. per il resto la skyline alla blade runner genera un tono su tono da crisi epilettica, cui si può reagire solo grazie alla piccantezza da infarto di un hot pot (il piatto tipico di chongqing). andiamo al tempio degli arhat per tirare un'oretta il fiato, ma, più che le statue dei venerabili, a lasciarci di stucco è il netto contrasto tra la pagoda di legno scuro e i palazzoni tutto intorno. una fotografia alquanto eloquente della cina di oggi.

da chongqing partiamo alla volta di guilin, che raggiungiamo dopo ben 20 ore di treno attraverso vallate incantevoli e la campagna più lussureggiante, trapunta di casette di legno e mattoni, che ci ricordano vagamente le dimore di manali o del nepal, eleganti pagode e distese di tetti di tegole nere. è l'altra cina, grazie alla quale ci dimentichiamo del grigiume di chongqing, almeno fino alla prossima città.

GUANXI
guilin
guilin è visitatissima, sia perchè è il centro principale della regione del lijiang, sia per le attrattive cittadine, tipo il picco della bellezza solitaria o la grotta del flauto di canne, il cui biglietto d'ingresso di oltre 10€ ci fa però girare al largo. ci accontentiamo dei parchi e dei laghetti, tra cui il lago shan con le sue pagode del sole e della luna, che non sono affatto male per una passeggiata nel sole novembrino, qui ancora piacevolmente caldo. la zona circostante invece è immersa in uno dei paesaggi più spettacolari e fotografati della cina, il bacino del fiume li con le sue verdi colline carsiche. è un luogo di indubbia bellezza. la campagna, fitta di risaie e alberi da frutto, è costellata di migliaia di picchi calcarei fin dove occhio può vedere. uno scenario degno di dragon ball.

yangshuo e xingping: il fiume li
dato che non sappiamo come altro fare ad avvicinarci al fiume li coi mezzi pubblici, ci tocca fare un salto a yangshuo, la cui fama di insopportabile postaccio turistico non potrebbe essere più azzeccata. da questo punto di vista siamo infatti al peggio del peggio che abbiamo incontrato in cina: il centro di yangshuo non è altro che una fila interminabile di negozi di souvenir, ristoranti anonimi per turisti e catene di fastfood americani. più brutto non si può. poi basta allontanarsi dal tourist ghetto, magari per mangiare un boccone nella zona del mercato cittadino o per sprofondare nell'incanto del fiume yulong, uno dei tributari del bacino del li, e dei suoi scenari bucolici, soprattutto se si evitano gli assembramenti dei gruppi organizzati che monopolizzano gli attracchi delle bamboo boat.



andiamo anche a xingping, che sulla carta dovrebbe essere lievemente meno sputtanata di yangshuo, anche se ci sembra strano, dato che proprio lì si trova il tratto di fiume stampato sulla banconota da 20 yuan. e infatti i pazzi turisti cinesi si scattano l'un l'altro divertentissimi servizi fotografici con 'sti benedetti 20 yuan in mano e i picchi riflessi nell'acqua sullo sfondo!! ergo, xinping è a un passo dal divenire una yangshuo in scala ridotta.
il problema non è il fatto che un luogo sia turistico. chiaro che se c'è qualcosa di interessante da vedere è più che sacrosanto che la gente ci vada. purtroppo però il turismo di massa funziona esclusivamente a pacchetto all-inclusive, in cui anche la più piccola sciocchezza è prenotata e prepagata, grazie all'intercessione di una delle più nefaste invenzioni della nostra era, le agenzie di viaggio, e il contatto col mondo autoctono è ridotto ai minimi termini. e così, a suon di catene di mega-alberghi, magari di proprietà di qualche tour operator straniero, e ristoranti dove il cibo locale è un miraggio, si fa piazza pulita del fascino di qualsiasi luogo sulla terra, il quale perde immediatamente di autenticità per trasformarsi in una sterile accozzaglia di stereotipi e finisce per non avere più nulla del paese in cui si trova, tendendo ad assumere l'aspetto abominevole di ciò che i turisti si aspettano di trovare. trattasi di tristissimi limbo senza capo né coda.

il fiume li sarebbe splendido, non fosse che, per la maggior parte dei tratti più accessibili coi mezzi pubblici, è percorso da moleste piccole barchette di finto bambù cariche di turisti o peggio da rumorosissimi barconi osceni che fanno davvero a pugni con l'idillio circostante. questo business del giro in barca guasta non poco l'atmosfera d'insieme. noi raggiungiamo a piedi il letto del fiume, attraverso scorci mozzafiato di campagna e agrumeti odorosi, sempre in bilico tra lasciarci andare a inenarrabili turpiloqui circa lo schifo di cui sopra e apprezzare la bellezza del paesaggio, che in realtà ci godiamo in barba a tutto e tutti.

quindi partiamo per la capitale del guangxi.


nanning
di nanning vediamo solo la stazione dei treni e le vie circostanti, perciò non possiamo dire granchè. a prima vista comunque ci sembra la solita megacittà cinese. mangiamo un riso nei dintorni dell'albergo, andiamo in cerca di frutta per il viaggio che ci attende il giorno seguente e poi dormiamo. la mattina dopo all'alba attraversiamo in autobus la città, in direzione della stazione langdong. l'unica nota di colore lungo il tragitto sono i soliti nonnetti mattinieri che fanno ginnastica o tai chi all'ombra dei grattacieli.

pingxiang
poche ore dopo siamo a pingxiang, poco lontano dal confine col vietnam. quando scendiamo troviamo l'immancabile tizio (che scopriamo poi essere vietnamita) che ci offre di cambiare gli yuan in dong e, quando gli diciamo che ne abbiamo solo 50 scoppia in una fragorosa risata. è lui a suggerirci che, anziché andare fino al confine, attraversarlo a piedi e poi cercare un modo per continuare il viaggio verso hanoi dall'altra parte, dove con ogni probabilità saremmo assaliti dagli agenti vietnamiti a caccia di clienti, i quali ci avrebbero di certo sparato prezzi folli, un autobus diretto da qui esiste eccome, a dispetto di quanto ci era stato detto in precedenza. e così, dopo aver fatto scorta per l'ultima volta di baozi, ci lasciamo la cina alle spalle, e chissà fino a quando.

ce ne andiamo con un pensiero che ci danza in testa, perchè davvero da queste parti quello che ci diciamo sempre calza più che mai a pennello: si viaggia per la gente, punto e basta. non c'è reliquia archeologica, paesaggio incontaminato o chissà quale altra meraviglia che tenga. non ci sono piramidi nè persepolis, konark o angkor, petra o bakhtapur che possano reggere il confronto. e nemmeno l'immensità himalayana, il cielo del wadi rum, l'azzurro del mar delle andamane o le risaie inondate di luce. infondo quello che, almeno per noi, rimane inciso a vita nel cuore è altro: è la timida cortesia di uno sconosciuto, quel gesto gentile e disinteressato che addolcisce in un baleno una giornata dura, è la purezza ultraterrena di cui sono saturi gli occhi dei bambini, l'eleganza delle vecchie signore che avanzano piegate sotto i fasci dell'erba, o magari la serata passata a bere col primo che incontri, è la lanterna che hanno fatto volare per te, per vederti un giorno tornare nella loro dolce cina.


::fine::
9 ottobre – 6 novembre 2013
CINA
::seconda parte::
2/3

se questi sono l'uomo nuovo di mao e la cina delle guardie rosse, beh allora di nuovo rispetto alla tradizione culturale cinese noi vediamo più che altro il totale annichilimento dell'uomo e della sua dignità, ridotto com'è a produttore e consumatore puro, e dell'identità profonda di questa cina che, come qualcuno ha giustamente sottolineato, “somiglia sempre di più all’aspetto peggiore dell’”occidente”.
per la prima volta gli appelli alla protezione della cultura tibetana in pericolo acquistano ai nostri occhi un senso, ma non a causa della pulizia etnica cinese e dell'annesso genocidio culturale. il rischio è piuttosto quello che sia fatta in tibet la stessa tabula rasa che ha devastato la cina, trasformando il tetto del mondo in un altro supermercato gigante. a questo proposito lhasa è un esempio eloquente. secondo una tale prospettiva allora i governi usa e cinese e la cricca lamaista non sembrano più nemici giurati: altro che conflitto e minchiate affini, tutti ci guadagnano a vedere il popolo tibetano diventare consumatore decerebrato come i suoi colleghi su scala quasi globale (così non rompe le palle al governo cinese, non mette in discussione l'autorità delle vesti amaranto e compra compra compra come piace alla casa bianca).

ecco, in altre parole alla cina manca un po' d'anima cinese.
alla cina manca la potenza pervasiva delle ritualità ripetute da secoli, della vita scandita da gesti compiuti allo stesso modo dalla notte dei tempi, che è in ultima analisi ciò che conferisce la sua indentità ad una nazione, ciò che fa di un popolo quello che è. nel tentativo di svecchiarsi, la cina pare essersi persa, aver smarrito quello che la rendeva cina. a breve non ne resterà più niente e già ora il poco che rimane pare sopravvivere solo nelle aree più remote, che come è noto vivono in una dimensione altra rispetto alle città e che da beijing sono lontane anni luce, in barba al fuso orario che è lo stesso da hong kong a kashgar.


la cina, uno dei fari della civiltà umana per 5 millenni, ha saputo inventarsi robetta come la bussola, la carta, la polvere da sparo e i fuochi d'artificio, la forchetta e le bacchette, la porcellana, le banconote, gli aquiloni, la stampa a caratteri mobili, il tofu, le carte da gioco, l'alcol, l'ombrello, gli spaghetti e l'agopuntura, e questo per elencare solo le prime cose che ci sono balzate alla mente e senza contare l'apporto della civiltà cinese in campo artistico e filosofico-letterario o nelle arti marziali, tanto per dirne un altro paio. quanta tristezza ci mette, di fronte a tutto questo, il pensiero che di una cultura così straordinaria, di un'identità così ricca e complessa, radicata in pagine tra le più creative e avvincenti dell'esperienza umana, dell'eredità unica e ingombrante di cotanta grandezza, ora non rimangano che le briciole, o meglio i puntini luccicanti delle lanterne volanti, a punteggiare il buio della notte cinese.

potremmo continuare all'infinito, ma la chiudiamo qui.

noi il nostro mese lo passiamo al sud perché in così poco tempo è inutile spingersi troppo lontano dal confine vietnamita.

YUNNAN

pur senza addentrarci nella zona di confine col tibet, perché abbiamo già avuto modo di entrare in contatto con la cultura tibetana in ladakh e a spiti, e in questa stagione fa un freddo cane, lo yunnan ne ha per tutti i gusti. coi suoi laghi, le montagne, le risaie, i fiumi, la campagna idilliaca e il variegato mosaico etnico che lo compone (è la provincia cinese col maggior numero di gruppi etnici) è una terra ricca e affascinante.

partiamo da jinghong, che raggiungiamo in bus direttamente dal laos. l'influenza del sudest asiatico da queste parti si fa sentire, sia nel cibo che nel carattere della gente, perché quando chiediamo a un gruppo di ometti come si arriva a manting lu, questi saltano tutti in piedi sulla sedia e iniziano a gesticolare come pazzi per darci le indicazioni più esatte possibili. robe da thailandia. insomma il primo impatto è ottimo: questi cinesi ci sembrano da subito ricettivi e collaborativi. siamo appena arrivati e già riusciamo ad accennare una specie di “duoshao” (quanto costa?) che loro prontamente capiscono e a comprare il biglietto dello sleeper bus per la capitale dello yunnan senza il minimo problema.

arriviamo a kunming alle sei di mattina. fuori è ancora buio, così temporeggiamo un po' sulle panchine della stazione e verso le 7 saliamo su un autobus per il centro. per verificarne l'esatta destinazione, dato che railway station è arabo per il cinese medio, o meglio è inglese, abbozziamo un timido huo che all'autista, che subito ci guarda e ripete: “huoche zhan” (ovvero stazione ferroviaria). un genio! e poi dalla stazione dei treni, sfoderando al secondo autista un dongfeng gwangchan da manuale, riusciamo a farci scaricare alla fermata giusta. ora, o gli autisti dei bus in cina li selezionano con un QI minimo di 130, oppure non è poi così impensabile muoversi in città contando sulle indicazioni dei locali. riusciamo di nuovo a prenotare biglietti di bus e treno senza il minimo intoppo e pure a ordinare un riso con le verdure e una zuppa senza carne. tutti sono oltremodo gentili e amichevolissimi. al ristorantino di fronte all'ostello ci mettiamo a chiacchierare (o meglio gesticolare e comunicare attraverso il traduttore del suo smartphone) col giovincello che serve ai tavoli, gli diamo qualche rupia indiana e un po' di thai baht e dobbiamo impegnarci seriamente per farlo desistere dalla sua intenzione di ripagarceli in yuan. così lui per ringraziarci ci abbraccia ipercontento al grido di “yesss! we are all chinese! uaaaaaaaaaaaaaaa”. il giorno dopo ci fermiamo a comprare dei mandarini da una donnina, che furbetta, prima ci dice che costano 4 yuan al kilo e poi vuole tenersene 10. noi allora insistiamo per farci dare il resto, tranquilli ma con fermezza, e nel frattempo intorno a noi si forma un capannello di gente curiosa, che, una volta afferrata la situazione, inizia a inveire animatamente contro la fruttivendola: una signora si mette a strillare inferocita quelli che immaginiamo essere insulti e il nonnetto a fianco agita agguerrito il suo bastone sotto il naso della sciagurata. per i cinque minuti seguenti tutti gridano a squarciagola. poi la signora che capeggia questa “crociata pro-laowai (stranieri)” si fa dare un kilo esatto di mandarini e 6 yuan di resto, ci sorride e ci accompagna via, ancora sbraitando indignata contro la malcapitata venditrice ma sorridendo amorevolmente verso di noi. insomma davvero scene indiane. grazie ancora ai cittadini di kunming per questa dimostrazione di fratellanza e umana meraviglia.

dopo un paio di giorni passati a passeggiare per il centro, i giardini del parco del lago verde e le viuzze della città vecchia di guandu e ad acclimatarci alla cina, ce ne partiamo in treno per xiaguan. accanto a noi è seduto uno studente di pechino, che si scola 6 lattine di birra calda alle 8 di mattina, ci mostra il video di un concerto metal e ciaccola che xe un gusto, nonostante il suo inglese traballante, così come la vecchina sorridente accanto a lui, che vuole sapere tutto su di noi, su dove siamo stati e dove abbiamo intenzione di andare.

da xiaguan-new dali prendiamo un minibus per weishan, una piccola cittadina di provincia, luogo di nascita del regno bai di nan-zhao e tappa importante lungo la via del the, con un centro storico tra i più splendidi e autentici che ci sia capitato di vedere in cina e che annoveriamo di certo tra le perle della nostra esperienza yunnanese. quattro vie lastricate si dipartono a croce dalla bella torre centrale per poi diramarsi in vicoli altrettanto suggestivi, fiancheggiati da case tradizionali bordate di lanterne e bandiere e da botteghe tipiche con incisori e calligrafi, venditori di fuochi d'artificio, di ciabatte in paglia, di cesti e stuoie. la piazza centrale poi è sempre piena di gente che ci saluta pure se passiamo di là 10 volte e nel parchetto poco lontano ogni sera al tramonto si raduna una banda di nonnetti che suona musica tradizionale all'interno del bel padiglione decorato. lungo le strade fuori dai pastifici artigianali gli spaghetti asciugano sulle rastrelliere, la gente gioca a carte e a majhong oppure si ferma nelle sale da the per due chiacchiere. weishan è un luogo magico, con ogni probabilità quello in cina cui ripensiamo con più nostalgia e forse anche l'unico in cui abbiamo sentito distintamente vibrare l'anima della cina tradizionale. anche grazie ai due vecchietti incredibili di un negozio, che insistono un sacco per offrirci due birrette.


invece la vicina dali, che del suddetto regno di nan-zhao fu capitale tra VIII e XI sec, non ci dice granchè. tutt'altro. ex paradiso di similhippie, nonché una delle mete più visitate dello yunnan, qui tutto l'anno accorrono frotte di turisti cinesi e chissà poi perché. noi ci andiamo in giornata, dormendo nella bella weishan, anche perché, a parte le costosissime tre pagode del tempio chong sheng che ignoriamo, per il resto c'è poco da vedere, anzi quasi niente: le vie sono zeppe di turisti, di negozi di souvenir e ristoranti costosissimi, degli scorci di vita locale cui ci ha abituati weishan non c'è manco l'ombra e le case tradizionali sono state per la maggior parte ricostruite, per giunta con uno stile standardizzante che finisce per appiattire non poco l'effetto d'insieme. si tratta per noi del primo impatto con la tendenza, imperante in ogni dove in cina, per cui i quartieri storici sono sistematicamente restaurati/riedificati, con interventi davvero troppo invasivi per restituirne il fascino autentico, ma che anzi finiscono immancabilmente per renderli involucri senza anima, e quindi trasformati in una sorta di luna park, zeppi dei soliti negozi anonimi, di alberghi e ristoranti, e mutilati della loro parte migliore, ovvero la quotidianità della gente che li abita. insomma, un disastro.

andiamo allora a shaxi, un piccolo villaggio rurale a metà strada tra dali e lijiang, che fu un importante centro mercantile lungo la via del the e dei cavalli, costruito sotto la dinastia tang e poi fiorito nelle epoche ming e qing, tra XIV e XX secolo. si tratta probabilmente di uno degli esempi meglio conservati di città carovaniera lungo la via del the, la quale collegava lo yunnan con tibet e birmania. la strada principale, con le sue belle case a corte bai in legno e pietra, è in effetti un salto indietro nel tempo, il cui incantesimo è amplificato dal numero limitato di turisti e complici anche condizioni di luce memorabili all'alba e al tramonto. peccato che a breve sarà ultimata una superstrada che connetterà shaxi con dali e lijiang, rendendola così facilmente accessibile al turismo di massa e compromettendone per sempre il fascino e la tranquillità bucolica. chissà che ne sarà poi dei piccoli splendidi villaggi che sonnecchiano nei dintorni, dove è ancora possibile farsi sedurre dal sapore dell'altra cina e stare ad osservare i contadini intenti alla raccolta del riso. passeggiamo nella campagna circostante, deliziosamente satura di colori e profumi autunnali, e poi lungo le sponde del fiume, salutati un metro sì e l'altro anche dalle famiglie che puliscono il riso sulla soglia di casa, dai vecchietti che giocano a carte al tempio, dai bimbi che ci rincorrono per offrirci patatine fritte. il venerdì è il giorno del vivace mercato settimanale, gremito di gente dei villaggi limitrofi e di donne bai e yi che vendono prodotti tipici.

quindi è la volta di lijiang, cuore dell'antico regno naxi, la cui città vecchia è potenzialmente un bijoux. infatti, pur se il nucleo storico è stato devastato da un terremoto nel 1996 e in seguito ricostruito, sempre secondo le criticabili linee guida di cui sopra, e a dispetto delle orde di turisti che invadono la old town un giorno sì e l'altro anche, perdersi nelle strade secondarie, lontano dall'affollatissima via centrale e dalla piazza, rimane comunque un'esperienza splendida: vicoli acciottolati fiancheggiano i pittoreschi canali in cui si riflettono le sagome dei palazzi, regalando scorci veneziani, ma infarciti di lanterne rosse e cascate di fiori. insomma lijiang, al contrario di dali, è ancora davvero fascinosa, nonostante tutto l'impegno che le autorità cinesi hanno messo per ridurla come la sorella. pure qui ciò che colpisce al primo impatto sono la solita accozzaglia di negozi e affini e la quasi totale assenza di abitanti non coinvolti nel tourism business, ma lijiang conserva ancora immutata tutta la sua suggestione. anche se non possiamo fare a meno di chiederci a che servano gli 80 yuan del biglietto (che non paghiamo) per sostenere l'heritage conservation found, se è tutto vecchio al massimo di 20 anni.


lo stesso dicasi purtroppo per la vicina shuhe. e pensare che te la spacciano per la controparte rustica e poco affollata della visitatissima lijiang. ma per favore! l'atmosfera da supermercato è la stessa, solo che a shuhe manca secondo noi l'aura di magia che invece ha lijiang.

l'unico posto con un po' di carattere nei dintorni è a nostro avviso il piccolo villaggio di baisha, dove almeno le nonnette che si incontrano per strada qui ci vivono, mica sono venute da chissà dove solo per vendere torte ai turisti. e poi c'è il famosissimo mr. ho, l'ultranovantenne medico taoista, ancora arzillo e in servizio alla sua veneranda età, che è già di per se stesso un monumento.


da lijiang infine ce ne partiamo alla volta di panzhihua nel sichuan, da cui poi ci attende un viaggetto notturno in treno per la capitale chengdu.
...
::fine seconda parte::
9 ottobre – 6 novembre 2013
CINA
::prima parte::
1/3

l'ultima veg noodle soup laotiana, ricca dell'aroma familiare di lemongrass e holy basil che fa tanto sudest asiatico e per cui stravediamo, la gustiamo malinconici mentre ci apprestiamo a salutare il laos. sono le 7.30. il nostro bus per jinghong se ne parte dalla stazione di nam tha una mezzoretta più tardi. avanza, lento ma costante, sfilando attraverso le colline e la foresta sterminata, fino al posto di confine di boten. poi, ultimata la disinfezione (ebbene sì! alla fortezza della mohan immigration c'è pure una specie di sterilizzatore che investe di spray decontaminante o simili ogni mezzo che passa di là) e espletate le formalità burocratiche e doganali, varchiamo finalmente la frontiera per addentrarci nella regione cinese del xishuangbanna (12000 campi di riso), il selvaggio sud dello yunnan. con noi sull'autobus ci sono una decina di cinesi e laotiani, che si spostano tra un paese e l'altro per ragioni di lavoro, e un aspirante monaco buddhista ramingo, originario del deserto del gobi, in viaggio verso la sua mongolia. ci racconta con sorprendente loquacità, e piazzando tra una frase e l'altra sguaiatissime risate da mahasiddha tantrico, delle sue avventure in india e nel sudest asiatico e poi del permesso per il tibet rifiutato, ragion per cui se ne sta tornando a casa. per concludere ci informa del fatto che i cinesi del sud sono i suoi preferiti, “gente splendida, espansiva e amichevole.. sono tutti come jackie chan!”. ah beh allora..., e ce la ridiamo grassamente tutti e tre. lui nella versione sbracatissima di cui sopra. un bijoux.

prima di tutto una premessa doverosa. non possiamo proferire parola in merito ai nostri vagabondaggi cinesi senza aver messo in chiaro come, con un solo mese di visto, siamo riusciti ad esplorare una porzione alquanto limitata del gigante che è la cina, onde per cui quanto segue è la registrazione del flusso di coscienza spontaneo che sensazioni e ricordi suscitano nella nostra mente. si tratta più che altro di impressioni, cui noi per primi non attribuiamo alcuna pretesa di oggettività o universalità. ergo, prendetele come vengono.
premessa ulteriore. non vorremo nelle righe successive indurvi fallacemente a pensare che la cina non ci sia piaciuta per niente, tutt'altro. ci siamo innamorati dei vicoli acciottolati delle città vecchie, delle birrette al chiaro di luna e di lanterne rosse, degli spiedini di toufu speziati e quasi agratis, dei tizi che pescano di notte lungo le sponde del li jiang, delle famigliole che fanno volare lanterne sul lungofiume di langzhong, dei nonnetti incantevoli che giocano a carte nelle sale da the tradizionali, delle guanciotte dei bimbi, delle partitone da professionisti di mahjong, con tanto di tavoli riscaldati, della campagna punteggiata dei fasci del riso, delle chiacchierate nella lingua franca dei gesti e degli sguardi con i compagni di vagone, del calore della gente, lontano anni luce dalla proverbiale freddezza cinese, evidentemente scioltasi come neve al sole sotto i cieli infuocati del sud.


tuttavia qualcosa non torna. questi fotogrammi da cineteca non sono la quotidianità della cina di oggi ma le reliquie di quella che fu e sembrano trovare sempre meno posto nell'ansia di modernità da cui si sono fatti prendere i cinesi, tanto che la loro poesia desueta sopravvive a stento in pochi sporadici angoli di meraviglia. a tutto ciò il dragone rampante del XXI secolo ha già voltato le spalle da un pezzo, per prendere una strada che di cinese ha ben poco. e questa prima impressione ci seguirà come un'ombra fino alla fine, come la brutta sensazione che alla cina manchi un pezzo. un pezzo ingombrante come i suoi 5000 anni di storia.

insomma, fuori il dente. 'sta cina ce l'aspettiamo un po' diversa. non che ci immaginassimo di trovarla congelata nell'atmosfera da passato mitico, degna dei migliori film in costume o di un wu xia a caso, ma l'aria che si respira, soprattutto nelle metropoli grigio fumo, ci coglie di sorpresa. sarà che dopo un giretto in laos, dove non si trova un grattacielo manco a cercarlo, e un anno nel subcontinente indiano, in quel mondo parallelo e multiforme incapace di arrendersi al “progresso” che piace ai padroni del mondo, appena mettiamo piedi in cina ci sembra d'essere piombati nell'apoteosi delle città supermercato senza arte né parte.

d'altronde questo è l'astro nascente del capitalismo globale, l'eldorado (dove l'oro è la manodopera a costo quasi zero) delle delocalizzazioni e una macchina da soldi che tiene sotto scacco mezzo mondo. quindi, premesse le solite considerazioni, trite e ritrite ma sempre valide, sulla logica della globalizzazione, che succhia la linfa vitale di popoli della terra per poi risputarne le carcasse spolpate, in nome dell'espansione dei mercati e dell'allargamento delle fila di consumatori lobotomizzati stile useuropa, quale piazza migliore da conquistare se non il paese più popoloso del mondo e partner economico del pianeta intero, in cui per giunta spadroneggia un regime monopartitico che ancora continua a chiamarsi comunista??
per farla breve da queste parti l'impero (uno che di celeste ha ben poco), altro che “colpire ancora”, ha fatto centro alla grande e nella terra di mezzo ci è entrato in forze più o meno una trentina d'anni fa, portandosi appresso tutto il suo esercito di corporation, usa e non: dai vari wallmart, ikea, carrefour, starbucks, kfc, burger king, mcdonalds (che in india manco a contare tutti quelle presenti sul territorio nazionale fai quelli che abbiamo visto in un solo quartiere di chengdu, di fronte alla quale, tanto per dire, impallidiscono bangkok, singapore, kuala lumpur e tutta la sarabanda delle città asiatiche decisamente americanofile), ai prodotti nestle, kraft, uniliver, P&G etc (questi, ahinoi!, onnipresenti in tutto il globo). e poi come dovunque anche in cina spopolano marketing e fashion trend in stile hollywoodiano e tutti comprano i prodotti delle multinazionali, perchè sennò sei out.
la popolazione si stratifica in una piramide dalla base sempre più larga, al cui vertice se ne sta l'elitè ricca e westernized, che vive a shanghai ma potrebbe essere a los angeles, londra o parigi, quindi più sotto la classe media, certo non straricca ma comunque bersaglio prediletto del bombardamento lavacervelli della pubblicità, e infine poi i poveracci (la famosa manodopera a costo zero) che fanno i lavori più umili, quelli che la parte di popolazione imborghesita non si sogna più di fare (senza contare il ruolo della discriminazione etnica in questa suddivisione funzionale). anche qua solito copione.


solo che il divario tra le due cine, quella benestante e quella povera, è impressionante, perchè le città sono oramai un concentrato del peggio delle città yankeee, con km e km di superstrade, milionate di m3 di cemento a occultare l'orizzonte, grattacieli come se piovesse, file infinite di vetrine improponibili con ogni porcheria immaginabile, dall'iphone alla borsa di prada, in un trionfo di grigio da fare invidia alla los angeles di blade runner, e in tutto questo gli edifici storici si contano sulle dita di una mano. fuori da lì invece i nonnetti se ne vanno in giro a dorso di mulo e i contadini trasportano ancora il raccolto a mano con le ceste o ingobbiti sotto il peso del bilanciere. il “delta $” tra lo stile di vita che pare imperversare in una capitale cinese a caso, dove le strade sono una teoria ininterrotta di macchinoni da paura (mercedes, bmw, audi, buic e altre robacce che in italia manco esistono), e la condizione media di una famiglia di contadini del sichuan, la quale tira a campare in una capanna di legno di nepalese memoria che si regge a malapena in piedi, è già terrificante, anche senza andare a scomodare gli uiguri del taklamakan e le altre minoranze sperdute chissà dove nella cina dimenticata. in confronto il divario tra la milano bene o i parioli e i pastori del gennargentu fa ridere i polli.
daje co' sto impero del consumo, chè a tutti serve che i cinesi comprino sennò addio baracca, e daje pure con l'industrializzazione sfrenata, la costruzione di dighe, l'apertura di miniere, l'abbattimento delle foreste e l'avvelenamento delle sorgenti. da qui alla totale e irreversibile contaminazione di aria, acqua e terra il passo è breve, quasi quanto quello con cui la cina ha realizzato la forma più perfettamente compiuta del delirante modello capitalista.


lasciamo pure che hu jintao reciti la sua parte, denunciando le sette idee “sovversive” di stampo occidentale che secondo lui stanno minacciando la purezza della società cinese, ovvero l'economia di stampo neoliberista (ahahah! sì, perchè lui è un socialista convinto..), le critiche sul passato del partito comunista (macchisefrega del passato quando il presente è un degnissimo successore, poi, se proprio vogliamo parlare di mao e delle guardie rosse, beh facciamo notte..), la promozione della “democrazia costituzionale occidentale” (ma se manco dai tempi della sua nascita ateniese si è mai trattato di democrazia autentica, e poi è stato un crescendo di disastri epocali) e del “valore universale” dei diritti umani (e su questo dall'occidente yankeezzato c'è solo da imparare), l’indipendenza dei media (e lo andiamo a dire a silvio e a de benedetti, o magari a murdoch) e la partecipazione della società civile (morta, sepolta e dimenticata in quasi tutta l'useuropa). 

la verità è una. alla promessa del capitalismo di farti diventare un borghese piccolo piccolo, ma che di grande grande c'ha la macchina, l'appartamento, l'iphone, le scarpe fighe e i vestiti griffati, la società cinese ha abboccato al volo. il sogno/incubo americano, sfumato in una bolla di sapone (o piuttosto immobiliare), è diventato la realtà di pechino e delle sue sorelle. lungi da noi accusare di questo solo i cinesi. è vero che il cittadino medio è lobotomizzato ovunque allo stesso modo, in italia come negli stati uniti come in cina. siamo tutti sulla stessa barca alla deriva – and that's kali yuga! - solo che non ci capaciteremo mai di camminare per le strade di chengdu o chongqing con la sensazione di essere finiti dentro qualche telefilm orroroso sui ricconi di manhattan.
e così la sensazione di cui sopra non ci molla.


a questo punto, per chiarire quello che intendiamo, urge ricorrere a un parallelo, forse inappropriato, con l'india, giusto per spostarci in un terreno più familiare. l'india continua a vivere in un altro tempo, nel suo tempo, e la sua baraonda umana la rende così complicata e restia al progresso global-style che la salva dal diventare ciò che la cina è già. 

quello che la rivoluzione culturale di mao ha letteralmente spazzato via dalla cina, in india è ancora la realtà di ogni giorno: l'aderenza alle stesse regole che dettavano la vita 2000 anni fa significa da un lato la sopravvivenza del sistema castale, significa aspettarsi che il gange azzeri il karma di chiunque vi si immerga anche se si lavora alla citi bank, significa credere ciecamente nella reincarnazione, significa un sacco di cose magari abominevoli agli occhi dello straniero, ma significa anche essere ancora attaccati, con un cordone ombelicale grosso come 5000 anni di storia, a ciò che ti rende indiano, o meglio hindu, jaina, musulmano, tamil, gujarathi, bengalese etc, e ti salva dal trasformarti in un animale globalizzato svuotato della sua essenza e sradicato dalla terra su cui cammina. d'altronde sulle rupie campeggia il volto di gandhi, che appena una 70ina di anni fa invitava i suoi fratelli a filare almeno un'ora al giorno per impedire agli inglesi di distruggere la tradizione tessile indiana, mica quello di mao. invece la rivoluzione culturale ha sistematicamente cancellato i simboli della cultura del passato, poiché li considerava, non senza ragione in un certo senso, espressione delle elites dominanti e non del popolo nella sua totalità (come poi si dovrebbe dire di tutte o quasi le culture del mondo, in quanto ciò che viene a noi trasmesso è sempre manifestazione del potere delle classi dirigenti – e questo vale per roma, l'egitto, la grecia, l'impero inca, quello khmer etc). dalle ceneri della vecchia cina imperiale, vetusta e antimoderna, doveva nascere quella nuova, comunista e egualitaria (?). invece il sogno di quasi tutti nella cina di oggi, nichilista e iconoclasta, è fare i soldi per essere la classe dominante. a ben guardare è proprio ciò che mao ha fatto della cina ad averle concesso di diventare uno dei più osceni buchi del culo del capitalismo. con la distruzione della sua cultura millenaria, tra le più raffinate della storia umana, considerata l'impedimento da superare per plasmare una nuova società, se n'è morta la cina vera, o ciò che la rendeva tale. mao e i suoi hanno annientato le tre grandi religioni e tradizioni filosofiche cinesi perchè incarnavano ai loro occhi i 4 mali capitali (vecchie idee, vecchia cultura, vecchi costumi e vecchie abitudini) che frenavano la cina dal compiere il grande balzo in avanti, e hanno così finito per lasciare ai cinesi l'unica religione che è loro rimasta, quella del capitale.

alla luce di questo, non sembra più tanto strano che la cultura cinese ci sia a tratti sembrata molto più viva tra la comunità cinese peranakan in malesia o magari in vietnam. se è vero che le cose stanno prendendo la stessa piega un po' dappertutto, è altrettanto chiaro come in cina un processo di questo tipo abbia trovato la strada spianata proprio dall'annientamento dell'unica cultura che avrebbe potuto contrapporsi alla non-cultura del money money come to me. e lo stesso senso lo si trova ironicamente nel paradosso per cui, di questo passo, alcuni aspetti della cultura cinese saranno sopravvissuti magari soltanto in corea o giappone. sì, proprio nella corea del sud ipertecnologica e ultramoderna, in cui il capitalismo è il pane quotidiano almeno dagli anni sessanta, anche grazie all'arrivo delle truppe americane con la guerra di corea un decennio prima, o magari in quel giappone che, primo in asia, aprì le porte alla modernizzazione e al modello economico anglosassone, oramai più di un secolo fa. due posti che, per inciso, devono buona parte del loro patrimonio culturale alla madre cina.

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::fine prima parte::