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17 – 25 gennnaio 2012, NAKHON PATHOM e KANCHANABURI

albeggia, un'alba tersa e timidamente radiosa, quando scendiamo dal treno alla stazione di nakhon pathom dopo una notte e 600 km buoni di viaggio. il mondo intorno a noi è ammantato di quell'aurea soffusa e incantata, e pare ancora vestito d'ovatta. nakhon pathom si ridesta, le strade sonnolente si affollano pian piano del consueto andirivieni mattutino, le bancarelle del kopi effondono un corroborante aroma di caffeina, capannelli ciarlieri si radunano intorno ai chioschi di noodles o rice soup, e in ogni dove scintillano flash di zafferano intenso: sono le tuniche dei monaci novizi, che vagano scalzi e raccolgono nelle ciotole il cibo offerto loro dalla comunità. tutta la città sembra vorticare riverente e affezionata intorno al cono arancio-dorato dello stupa più alto del mondo...
un altro treno, stavolta piacevolmente sgangherato, attraversa sbuffando la campagna verdeggiante e muove verso ovest in direzione di kanchanaburi, lungo la tristemente famosa "ferrovia della morte", che oggi per fortuna è immersa nella vita più vita che c'è, quella rurale e contadina della madre terra che nutre i suoi figli. il treno sembra un convoglio d'altri tempi, forse perchè siamo nel vagone più vecchio e interamente in legno, compresi i sedili che di tanto in tanto rovinano a terra in un boato assordante, più fragoroso persino dello sferragliare degli ingranaggi, e annuvolano l'aria di polvere rossastra..


un paio d'ore e siamo sulle rive del fiume kwai, a dormire su di una piattaforma galleggiante che ondeggia dolcemente al passaggio delle longtail boat..
poco lontano il ponte e i binari della linea ferroviaria (415 km e 680 ponti in tutto) che avrebbe dovuto collegare thailandia e myanmar, un progetto giapponese funzionale all'ulteriore espansione dell'impero del sol levante nel sud-est asiatico e alla cui realizzazione hanno lavorato tra il '42 e il '45 circa 250.000 persone tra prigionieri di guerra inglesi, olandesi, australiani e americani (60.000), ma soprattutto manodopera locale schiavizzata e deportata a forza da malesia (malay e tamil), birmania e giava (oltre 180.000). l'estrema durezza delle condizioni di lavoro, che ha prodotto il più che atroce bilancio di 100.000 morti (85% tra i civili), è evocata negli interessanti musei che ricostruiscono la vicenda, fornendo informazioni e dati. ci sono poi numerosi cimiteri militari, disseminati in città e lungo tutta la tratta ferroviaria fino al passo delle tre pagode, in ricordo del sacrificio dei soldati occidentali. pur con tutto il rispetto dovuto ai morti, siano essi in divisa o meno, c'è da dire che tali eserciti di certo non erano giunti sin qui in nome di qualcuna delle balle umanitarie che ancora oggi ci propina la propaganda del giornalismo ufficiale, bensì per tutelare gli interessi delle potenze coloniali d'occidente. e invece per le vittime civili, loro sì del tutto incolpevoli, non restano nè cronache nè memoriali nè eroiche epopee cinematografiche (questo è uno dei motivi per cui non comprendiamo le lodi che si sprecano da mezzo secolo sulla pellicola di david lean).. certo se poi la storia la scrivono i vincitori...
a kanchanaburi c'è comunque molto altro da fare e vedere: la campagna circostante è deliziosa e ce la giriamo finalmente in bicicletta, sotto un sole caldo ma clemente, persi nel verde che avvolge i mille wat custoditi nelle profondità delle grotte o arroccati sulla cima delle colline...

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