9
ottobre – 6 novembre 2013
CINA
::prima
parte::
1/3
l'ultima
veg noodle soup laotiana, ricca dell'aroma familiare di lemongrass e
holy basil che fa tanto sudest asiatico e per cui stravediamo, la
gustiamo malinconici mentre ci apprestiamo a salutare il laos. sono
le 7.30. il nostro bus per jinghong se ne parte dalla stazione di nam
tha una mezzoretta più tardi. avanza, lento ma costante, sfilando
attraverso le colline e la foresta sterminata, fino al posto di
confine di boten. poi, ultimata la disinfezione (ebbene sì! alla
fortezza della mohan immigration c'è pure una specie di
sterilizzatore che investe di spray decontaminante o simili ogni
mezzo che passa di là) e espletate le formalità burocratiche e
doganali, varchiamo finalmente la frontiera per addentrarci nella
regione cinese del xishuangbanna (12000 campi di riso), il
selvaggio sud dello yunnan. con noi sull'autobus ci sono una decina
di cinesi e laotiani, che si spostano tra un paese e l'altro per
ragioni di lavoro, e un aspirante monaco buddhista ramingo,
originario del deserto del gobi, in viaggio verso la sua mongolia. ci
racconta con sorprendente loquacità, e piazzando tra una frase e
l'altra sguaiatissime risate da mahasiddha tantrico, delle sue
avventure in india e nel sudest asiatico e poi del permesso per il
tibet rifiutato, ragion per cui se ne sta tornando a casa. per
concludere ci informa del fatto che i cinesi del sud sono i suoi
preferiti, “gente splendida, espansiva e amichevole.. sono tutti
come jackie chan!”. ah beh allora..., e ce la ridiamo grassamente
tutti e tre. lui nella versione sbracatissima di cui sopra. un
bijoux.
prima
di tutto una premessa doverosa. non possiamo proferire parola in
merito ai nostri vagabondaggi cinesi senza aver messo in chiaro come,
con un solo mese di visto, siamo riusciti ad esplorare una porzione
alquanto limitata del gigante che è la cina, onde per cui quanto
segue è la registrazione del flusso di coscienza spontaneo che
sensazioni e ricordi suscitano nella nostra mente. si tratta più
che altro di impressioni, cui noi per primi non attribuiamo alcuna
pretesa di oggettività o universalità. ergo, prendetele come
vengono.
premessa
ulteriore. non vorremo nelle righe successive indurvi fallacemente a
pensare che la cina non ci sia piaciuta per niente, tutt'altro. ci
siamo innamorati dei vicoli acciottolati delle città vecchie, delle
birrette al chiaro di luna e di lanterne rosse, degli spiedini di
toufu speziati e quasi agratis, dei tizi che pescano di notte lungo
le sponde del li jiang, delle famigliole che fanno volare lanterne
sul lungofiume di langzhong, dei nonnetti incantevoli che giocano a
carte nelle sale da the tradizionali, delle guanciotte dei bimbi,
delle partitone da professionisti di mahjong, con tanto di tavoli
riscaldati, della campagna punteggiata dei fasci del riso, delle
chiacchierate nella lingua franca dei gesti e degli sguardi con i
compagni di vagone, del calore della gente, lontano anni luce dalla
proverbiale freddezza cinese, evidentemente scioltasi come neve al
sole sotto i cieli infuocati del sud.
tuttavia
qualcosa non torna. questi fotogrammi da cineteca non sono la
quotidianità della cina di oggi ma le reliquie di quella che fu e
sembrano trovare sempre meno posto nell'ansia di modernità da cui si
sono fatti prendere i cinesi, tanto che la loro poesia desueta
sopravvive a stento in pochi sporadici angoli di meraviglia. a tutto
ciò il dragone rampante del XXI secolo ha già voltato le spalle da
un pezzo, per prendere una strada che di cinese ha ben poco. e questa
prima impressione ci seguirà come un'ombra fino alla fine, come la
brutta sensazione che alla cina manchi un pezzo. un pezzo ingombrante
come i suoi 5000 anni di storia.
insomma,
fuori il dente. 'sta cina ce l'aspettiamo un po' diversa. non che ci
immaginassimo di trovarla congelata nell'atmosfera da passato mitico,
degna dei migliori film in costume o di un wu xia a caso, ma
l'aria che si respira, soprattutto nelle metropoli grigio fumo, ci
coglie di sorpresa. sarà che dopo un giretto in laos, dove non si
trova un grattacielo manco a cercarlo, e un anno nel subcontinente
indiano, in quel mondo parallelo e multiforme incapace di arrendersi
al “progresso” che piace ai padroni del mondo, appena mettiamo
piedi in cina ci sembra d'essere piombati nell'apoteosi delle città
supermercato senza arte né parte.
d'altronde
questo è l'astro nascente del capitalismo globale, l'eldorado (dove
l'oro è la manodopera a costo quasi zero) delle delocalizzazioni e
una macchina da soldi che tiene sotto scacco mezzo mondo.
quindi, premesse le solite considerazioni, trite e ritrite ma sempre
valide, sulla logica della globalizzazione, che succhia la linfa
vitale di popoli della terra per poi risputarne le carcasse spolpate,
in nome dell'espansione dei mercati e dell'allargamento delle fila di
consumatori lobotomizzati stile useuropa, quale piazza migliore da
conquistare se non il paese più popoloso del mondo e partner
economico del pianeta intero, in cui per giunta spadroneggia un
regime monopartitico che ancora continua a chiamarsi comunista??
per
farla breve da queste parti l'impero (uno che di celeste ha ben
poco), altro che “colpire
ancora”,
ha fatto centro alla grande e nella terra
di mezzo
ci è entrato in forze più o meno una trentina d'anni fa, portandosi
appresso tutto il suo esercito di corporation, usa e non: dai vari
wallmart, ikea, carrefour, starbucks, kfc, burger king, mcdonalds
(che in india manco a contare tutti quelle presenti sul territorio
nazionale fai quelli che abbiamo visto in un solo quartiere di
chengdu, di fronte alla quale, tanto per dire, impallidiscono
bangkok, singapore, kuala lumpur e tutta la sarabanda delle città
asiatiche decisamente americanofile), ai prodotti nestle, kraft,
uniliver, P&G etc (questi, ahinoi!, onnipresenti in tutto il
globo). e poi come dovunque anche in cina spopolano marketing e
fashion trend in stile hollywoodiano e tutti comprano i prodotti
delle multinazionali, perchè sennò sei out.
la
popolazione si stratifica in una piramide dalla base sempre più
larga, al cui vertice se ne sta l'elitè ricca e westernized,
che vive a shanghai ma potrebbe essere a los angeles, londra o
parigi, quindi più sotto la classe media, certo non straricca ma
comunque bersaglio prediletto del bombardamento
lavacervelli
della pubblicità, e infine poi i poveracci (la famosa manodopera a
costo zero) che fanno i lavori più umili, quelli che la
parte di popolazione
imborghesita non si sogna più di fare (senza contare il ruolo della
discriminazione etnica in questa suddivisione funzionale). anche qua
solito copione.
solo
che il divario tra le due cine, quella benestante e quella povera, è
impressionante, perchè le città sono oramai un concentrato del
peggio delle città yankeee, con km e km di superstrade, milionate di
m3 di cemento a occultare l'orizzonte, grattacieli come se piovesse,
file infinite di vetrine improponibili con ogni porcheria
immaginabile, dall'iphone alla borsa di prada, in un trionfo di
grigio da fare invidia alla los angeles di blade runner, e in tutto
questo gli edifici storici si contano sulle dita di una mano. fuori
da lì invece i nonnetti se ne vanno in giro a dorso di mulo e i
contadini trasportano ancora il raccolto a mano con le ceste o
ingobbiti sotto il peso del bilanciere. il “delta $” tra lo stile
di vita che pare imperversare in una capitale cinese a caso, dove le
strade sono una teoria ininterrotta di macchinoni da paura (mercedes,
bmw, audi, buic e altre robacce che in italia manco esistono), e la
condizione media di una famiglia di contadini del sichuan, la quale
tira a campare in una capanna di legno di nepalese memoria che si
regge a malapena in piedi, è già terrificante, anche senza andare a
scomodare gli uiguri del taklamakan e le altre minoranze sperdute
chissà dove nella cina dimenticata. in confronto il divario tra la
milano bene o i parioli e i pastori del gennargentu fa ridere i
polli.
daje
co' sto impero del consumo, chè a tutti serve che i cinesi comprino
sennò addio baracca, e daje
pure con l'industrializzazione sfrenata, la costruzione di dighe,
l'apertura di miniere, l'abbattimento delle foreste e l'avvelenamento
delle sorgenti. da qui alla totale e irreversibile contaminazione di
aria, acqua e terra il passo è breve, quasi quanto quello con cui la
cina ha realizzato la forma più perfettamente compiuta del delirante
modello capitalista.
lasciamo
pure che hu jintao reciti la sua parte, denunciando le sette idee
“sovversive” di stampo occidentale che secondo lui stanno
minacciando la purezza della società cinese, ovvero l'economia
di stampo neoliberista (ahahah! sì, perchè lui è un socialista
convinto..), le critiche sul passato del partito comunista
(macchisefrega del passato quando il presente è un degnissimo
successore, poi, se proprio vogliamo parlare di mao e delle guardie
rosse, beh facciamo notte..), la promozione della “democrazia
costituzionale occidentale” (ma se manco dai tempi della sua
nascita ateniese si è mai trattato di democrazia autentica, e poi è
stato un crescendo di disastri epocali) e del “valore universale”
dei diritti umani (e su questo dall'occidente yankeezzato c'è solo
da imparare), l’indipendenza dei media (e lo andiamo a dire a
silvio e a de benedetti, o magari a murdoch) e la partecipazione
della società civile (morta, sepolta e dimenticata in quasi tutta
l'useuropa).
la
verità è una. alla promessa del capitalismo di farti diventare un
borghese piccolo piccolo, ma che di grande grande c'ha la macchina,
l'appartamento, l'iphone, le scarpe fighe e i vestiti griffati, la
società cinese ha abboccato al volo. il sogno/incubo americano,
sfumato in una bolla di sapone (o piuttosto immobiliare), è
diventato la realtà di pechino e delle sue sorelle. lungi da noi
accusare di questo solo i cinesi. è vero che il cittadino medio è
lobotomizzato ovunque allo stesso modo, in italia come negli stati
uniti come in cina. siamo
tutti sulla stessa barca alla deriva – and
that's kali yuga!
- solo che non ci capaciteremo mai di camminare
per le strade di chengdu o chongqing con la sensazione di essere
finiti dentro qualche telefilm orroroso sui ricconi di manhattan.
e
così la sensazione di cui sopra non ci molla.
a
questo punto, per chiarire quello che intendiamo, urge ricorrere a un
parallelo, forse inappropriato, con l'india, giusto per spostarci in
un terreno più familiare. l'india continua a vivere in un altro
tempo, nel suo tempo, e la sua baraonda umana la rende così
complicata e restia al progresso global-style che la salva dal
diventare ciò che la cina è già.
quello che la rivoluzione
culturale di mao ha letteralmente spazzato via dalla cina, in india è
ancora la realtà di ogni giorno: l'aderenza alle stesse regole che
dettavano la vita 2000 anni fa significa da un lato la sopravvivenza
del sistema castale, significa aspettarsi che il gange azzeri il
karma di chiunque vi si immerga anche se si lavora alla citi bank,
significa credere ciecamente nella reincarnazione, significa un sacco
di cose magari abominevoli agli occhi dello straniero, ma significa
anche essere ancora attaccati, con un cordone ombelicale grosso come
5000 anni di storia, a ciò che ti rende indiano, o meglio hindu,
jaina, musulmano, tamil, gujarathi, bengalese etc, e ti salva dal
trasformarti in un animale globalizzato svuotato della sua essenza e
sradicato dalla terra su cui cammina. d'altronde sulle rupie
campeggia il volto di gandhi, che appena una 70ina di anni fa
invitava i suoi fratelli a filare almeno un'ora al giorno per
impedire agli inglesi di distruggere la tradizione tessile indiana,
mica quello di mao. invece la rivoluzione culturale ha
sistematicamente cancellato i simboli della cultura del passato,
poiché li considerava, non senza ragione in un certo senso,
espressione delle elites dominanti e non del popolo nella sua
totalità (come poi si dovrebbe dire di tutte o quasi le culture del
mondo, in quanto ciò che viene a noi trasmesso è sempre
manifestazione del potere delle classi dirigenti – e questo vale
per roma, l'egitto, la grecia, l'impero inca, quello khmer etc).
dalle ceneri della vecchia cina imperiale, vetusta e antimoderna,
doveva nascere quella nuova, comunista e egualitaria (?). invece il
sogno di quasi tutti nella cina di oggi, nichilista e iconoclasta, è
fare i soldi per essere la classe dominante. a ben guardare è
proprio ciò che mao ha fatto della cina ad averle concesso di
diventare uno dei più osceni buchi del culo del capitalismo.
con la distruzione della sua cultura millenaria, tra le più
raffinate della storia umana, considerata l'impedimento da superare
per plasmare una nuova società, se n'è morta la cina vera, o ciò
che la rendeva tale. mao e i suoi hanno annientato le tre grandi
religioni e tradizioni filosofiche cinesi perchè incarnavano ai loro
occhi i 4 mali capitali (vecchie idee, vecchia cultura, vecchi
costumi e vecchie abitudini) che frenavano la cina dal compiere il
grande balzo in avanti, e hanno così finito per lasciare ai cinesi
l'unica religione che è loro rimasta, quella del capitale.
alla
luce di questo, non sembra più tanto strano che la cultura cinese ci
sia a tratti sembrata molto più viva tra la comunità cinese
peranakan in malesia o magari in vietnam. se è vero che le cose
stanno prendendo la stessa piega un po' dappertutto, è altrettanto
chiaro come in cina un processo di questo tipo abbia trovato la
strada spianata proprio dall'annientamento dell'unica cultura che
avrebbe potuto contrapporsi alla non-cultura del money money come
to me. e lo stesso senso lo si trova ironicamente nel paradosso
per cui, di questo passo, alcuni aspetti della cultura cinese saranno
sopravvissuti magari soltanto in corea o giappone. sì, proprio nella
corea del sud ipertecnologica e ultramoderna, in cui il capitalismo è
il pane quotidiano almeno dagli anni sessanta, anche grazie
all'arrivo delle truppe americane con la guerra di corea un decennio
prima, o magari in quel giappone che, primo in asia, aprì le porte
alla modernizzazione e al modello economico anglosassone, oramai più
di un secolo fa. due posti che, per inciso, devono buona parte del
loro patrimonio culturale alla madre cina.
...
::fine
prima parte::
Nessun commento:
Posta un commento